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Sentenza Tribunale di Venezia terza sezione civile

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il TRIBUNALE ORDINARIO di VENEZIA, III SEZIONE CIVILE, in funzione di giudice unico nella persona del dott. ENRICO STEFANI, ha pronunciato la seguente

SENTENZA
nella causa rubricata al n. 5587 del R.G.AA.CC. dell’anno 2000 promossa con atto di citazione notificato in data 24.11.2000 a mezzo assistente UNEP C.A. Venezia Sandro Cipriani da

S. V. e F. V., con il proc. dom. Avv.to Giovanni Bonifacio, per mandato a margine dell’atto di citazione

attrici

vs
A. L.
convenuto contumace

Causa trattenuta in decisione sulle seguenti conclusioni delle parti costituite:

per parte attrice: accertato il comportamento di A. L. nei confronti delle attrici, condannarsi lo stesso a pagare la somma di lire 300.000.000, o la maggiore o minor somma che risulterà in corso di causa.

FATTO E DIRITTO
Le attrici in epigrafe premesso, in fatto, la paternità naturale del convenuto di F.; che l’unione si era interrotta durante la stessa gravidanza e a causa della volontà della madre, S., di portarla comunque a termine; che il convenuto mai si era interessato alla bambina, da alcun punto di vista, malgrado incontrovertibile pronuncia di riconoscimento di paternità, nonché malgrado ulteriore incontrovertibile accertamento dell’obbligo contributivo alimentare, come documentato, appunto mai assolto; che la figlia raggiunta la maggiore età aveva inutilmente tentato un contatto con il padre subendone l’indifferenza; che indipendentemente dal titolo esecutivo inerente il coacervo delle somme mai versate per il contributo al mantenimento andava valutato l’ulteriore danno, anche morale, come rappresentato dalla consumata inottemperanza ed indifferenza agli obblighi tutti scaturenti dal rapporto, non trascurate le conseguenze lesive apprezzabili anche da un punto di vista medico legale relativamente alla figlia, rassegnavano le epigrafate conclusioni in punto risarcimento del danno sofferto.

Nella contumacia del convenuto, espletata c.t.u. medico legale su F. V., la causa, previa istruzione anche orale, era trattenuta in decisione all’udienza del 19.3.2004, con assegnazione di termini per la redazione di scritti defensionali.

I fatti di causa sono incontroversi ed incontrovertibili.

Il convenuto, pervicace nel disinteresse verso la figlia naturale anche in questo procedimento, è il padre di F. V.; non se ne è mai interessato da alcun punto di vista; ignorandone, sin dalla gravidanza dell’allora compagna, la nascita, le sorti, la vita, le esigenze economiche, maturando, per così dire, un debito per omessi contributi alimentari, certo non oggetto del presente procedimento, di cospicua entità.

Ciò premesso in fatto la domanda risarcitoria come svolta va qualificata e riferita dal Tribunale adito al danno morale conseguente alla consumazione del reato p.e.p. dall’art. 570 c.p., certo quivi astrattamente valutabile, nonché alle ulteriori conseguenze lesive che le predette condotte, illecite ex art. 2043 c.c., avrebbero determinato nella sfera psico fisica e in ogni caso esistenziale dell’attrice F.

Dal primo punto di vista non v’è difficoltà alcuna nel riconoscere la consumazione del reato: è incontestato che il L., pur dovendo versare mensilmente l’importo di lire 500.000, per effetto del documentato accertamento in giudicato Tribunale di Venezia sentenza n. 758/1987, nulla ha mai versato (nulla ha provato di avere mai versato in questa sede processuale).

L’esito del procedimento penale è a sua volta non contestato: estinzione per amnistia (in ogni caso cfr. doc. n. 9).

Il dato, ovviamente, è in sé irrilevante.

Non è allegata in ogni caso dal convenuto eccezione in senso proprio e stretto alcuna: né dal punto di vista della esistenza di un giudicato assolutorio di merito; né dal punto di vista della costituzione di parte civile delle odierne attrici; né dal punto di vista, consequenziale, della avvenuta corresponsione, per eventuale condanna, al risarcimento del danno relativo, danno, dunque, che, in atti, risulta mai accertato né evidentemente liquidato.

Legittimate attive, dal punto di vista in esame, sono senz’altro entrambe le attrici: madre e figlia.

E’ infatti nei confronti di entrambe che il convenuto ha consumato il reato di violazione degli obblighi familiari.

Quanto al non semplice problema della entificazione andrà valutata l’intensità del dolo.

Tentando una non semplice contestualizzazione della vicenda umana per cui è causa non appare imprudente ritenere che il convenuto non abbia di fatto accettato l’ipotesi della gravidanza; non abbia aderito all’idea della nascita del frutto del concepimento; il tutto in età giovanile, ragionevolmente, dunque, nella non giustificabile seppur comprensibile condizione di immaturità rispetto all’evento (all’epoca il L. aveva circa vent’anni).

Ai fini di causa, quanto al danno non patrimoniale da reato ex art. 2059 c.c., rileva tuttavia il solo periodo successivo alla statuizione sopra ricordata risalente all’anno 1987 ed immediatamente esecutiva prima ancora dell’incontestato passaggio in giudicato.

A tutt’oggi, dunque, quand’anche si assuma che raggiunta la maggiore età F. goda o possa godere di relativa autonomia patrimoniale, in effetti secondo l’esito della istruttoria abbandonata l’università lavora come cameriera, il L. continua, malgrado il detto esistente titolo giudiziale, a consumare il reato, non avendo, in fatto, adempiuto all’adempimento dell’obbligo per circa vent’anni.

Un lungo periodo di tempo, dunque.

Lasso di tempo durante il quale nulla, si deve ritenere, è stato fatto: neppure per giustificare il perdurante inadempimento; laddove, e anche di ciò non v’è contestazione in causa, l’onerato gode di una buona posizione sociale ed economica.

Intenso, per l’effetto, il dolo che connota la condotta del convenuto: all’iniziale disinteresse, forse rimozione, della vicenda della nascita, pur raggiunta una età matura, e relativa sopradetta capacità economica, a fronte della esistenza di un titolo finanche incontrovertibile, nulla ha mai ritenuto di versare; nulla ritiene, in questo procedimento, di allegare a giustificazione di tale e tanta trascuratezza.

Ciò premesso, tenuto conto della durata dell’inadempimento, della assenza di ragionevole motivazione alcuna, della detta intensità del dolo, il Tribunale, anche in via equitativa, liquida il danno morale in commento nella somma, espressa in valori attualizzati e comprensiva degli interessi compensativi maturati, di euro 80.000,00.

Nessuna conseguenza direttamente apprezzabile dal punto di vista del danno patrimoniale è in effetti allegata in causa.

E’ vero che la domanda, nella sua genericità, consente il riferimento al coacervo di ogni astratta possibile voce risarcitoria.

E’ vero tuttavia che S. V. possiede relativo titolo esecutivo per l’omessa contribuzione alimentare.

Quanto ad ulteriori voci di danno patrimoniale astrattamente correlabili all’inadempimento descritto, riguardanti anche F., come riferibili, in sostanza, alle possibili occasioni perdute, dal punto di vista della scolarizzazione e dell’inserimento concorrenziale nella vita, ebbene nulla viene di fatto allegato (aut richiesto).

L’interessata, per sua fortuna, ha in effetti goduto dell’aiuto ed apporto economico della madre, di cui s’è detto, e di terzi, estranei al presente giudizio.

La mancata prosecuzione negli studi universitari non è seriamente correlata, in punto allegazioni e offerta di prova, alla condotta del convenuto.

Si venga dunque, come anticipato, alle ulteriori implicazione lesive della condotta del convenuto.

L’espletata consulenza esclude, piuttosto categoricamente che F. V. a tutt’oggi presenti un quadro psico-fisico apprezzabile dal punto di vista della esistenza di un danno biologico.

Si tratta di valutazioni complete ed accurate che il Tribunale ritiene senz’altro di fare proprie.

Quasi paradossalmente, d’altra parte, proprio l’esistenza di congrue figure sostitutive, i nonni e l’attuale marito della attrice, poi, e naturalmente l’impegno ed il coraggio della stessa madre, hanno posto l’interessata nella condizione di crescere secondo un percorso sostanzialmente regolare, con una regolare evoluzione .

E’ culturalmente evidente che la mancanza di un padre, del vero padre, non rende la condizione della figlia assimilabile alla posizione di chi abbia goduto della presenza fattiva, costruttiva ed affettuosa del genitore naturale.

Si tratta di una valutazione tanto ovvia quanto irrilevante ai fini di causa dal punto di vista del lamentato danno biologico: e tanto poiché non esistono elementi apprezzabili dal punto di vista di un danno permanente quale lesione eclatante all’integrità psico-fisica della interessata.

Dette considerazioni aprono la strada al tema ragionevolmente più delicato della controversia.

Liquidato il danno morale da reato, accertata l’esistenza di un titolo esecutivo che copre il danno patrimoniale sofferto dalla madre che, da sola, e comunque con l’aiuto di terzi, ha sopperito all’obbligo alimentare e di mantenimento, esclusi ulteriori profili di danni patrimoniali apprezzabili dal punto di vista delle chances perdute dalla figlia, perché non allegate aut non provate; escluso, ulteriormente, un danno biologico in senso stretto, per l’accertata capacità di F. di correlazionarsi con la vita e con i rapporti sociali e sentimentali senza presentare profili apprezzabili in punto disagi clinicamente manifesti, resta da accertare se la condotta palesemente illecita del L. abbia arrecato un danno ulteriore, non apprezzabile in senso strettamente patrimoniale alla figlia, danno non coincidente con le mere conseguenze risarcitorie del consumato reato ovvero con il liquidato danno morale.

Va premesso, quanto alla fonte dell’illecito le cui ulteriori conseguenze lesive sono in discussione, che diritti soggettivi assoluti di rango costituzionale appaiono pacificamente violati: perché il concepimento, che piaccia o meno, non si riduca a fatto meramente materiale, come accade invece in buona parte del regno animale; la nostra carta costituzionale obbliga i genitori, anche naturali e senza distinzione alcuna sulla natura del vincolo che li lega, ad assistere materialmente e moralmente la prole, dunque un obbligo non meramente patrimoniale ma esteso, come è ovvio, alla assistenza educativa.

Solo in assenza aut incapacità di costoro la stessa fonte costituzionale prevede forme sostitutive di assistenza.

Inutile ricordare che si tratta di una scelta assai chiara ed univoca, non essendo estranea alla esperienza di ordinamenti pur vigenti nel ventesimo secolo l’individuazione di un ruolo non solo meramente sostitutivo ovvero vicario e necessitato dello Stato nell’assistenza ed educazione dei minori e della prole.

Non assolvere tale obbligo, anzi omettere ogni condotta assimilabile all’assolvimento in questione, come nel caso di specie, ove non si controverte di una non corretta gestione del ruolo paterno ma della assoluta obliterazione del medesimo, è dunque un fatto illecito.

La sanzione penale che lo tipicizza e punisce ne è ulteriore riprova.

Il danno non patrimoniale sofferto da F. è interamente assorbito ovvero coincide con il liquidato danno morale?

O v’è piuttosto un ambito di ulteriori conseguenze lesive che, se ed in quanto provate, anche per presunzioni semplici, meritano tutela risarcitoria?

I noti recenti approdi della S.C. e della stessa Corte Costituzionale, in una lettura congiunta, tendono, certamente riproponendo chiavi di lettura non del tutto innovative, a proporre all’interprete, anche con riferimento al c.d. danno esistenziale (ma non solo e non perspicuamente) le seguenti linee guida: riconoscere un danno non strettamente patrimoniale ulteriore e diverso dal danno morale, quale tradizionalmente inteso; individuare, ben oltre le ipotesi previste dalla legge (sostanzialmente quelle di cui all’art. 185 c.p.), situazioni giuridiche suscettibili di una lesione – danno conseguenza – appunto monetizzabile ma non patrimoniale; restringere all’ambito dei diritti soggettivi costituzionalmente tutelati e come tali riconosciuti detta tutela.

I detti recenti approdi, come accennato, si inseriscono in un tema la cui soluzione è periodicamente oscillante nella giurisprudenza delle corti superiori e, anche in alternativa, di merito: ora l’utilizzazione dell’art. 2059 c.c. in termini elastici; ora l’interpretazione costituzionalmente orientata del disposto dell’art. 2043 c.c. (come fu nel rapporto con l’art. 32 della Costituzione; ovvero, in altri meno noti approdi, come fu nel rapporto con l’art. 29 della stessa), tanto al fine di estendere l’ambito delle situazioni giuridiche soggettive tutelabili dal punto di vista del danno non strettamente patrimoniale.

Quale che sia il percorso da scegliere, rileva, piuttosto, in tema, un altro decisivo e non più confutabile approdo della stessa giurisprudenza di legittimità: quello per il quale l’ingiustizia del danno, salvo il criterio di imputazione della condotta, sia esso schiettamente colposo o meno, giammai va strettamente riferito alla natura della situazione legittimante (e che si assume illecitamente compressa aut violata).

Ecco allora gli estremi per una ennesima pericolosa involuzione (da altro punto di vista argomentativo, ecco i presupposti per un passo indietro rispetto all’approdo predetto).

Lo spirito e l’esito che pervade detti ultimi autorevoli precedenti – che certo vanno letti con prudenza e quali ulteriori elementi argomentativi di una disputa e di un terreno certamente ancora aperto ad ogni indagine – appare essere, nel suo complesso, in parte non esente da contraddizioni in termini: il fine è quello di ampliare l’ambito della tutela, ancorandola, tuttavia, in senso che può apparire limitativo (salvo assumere che la detta rilevanza costituzionale legittimante la risarcibilità del danno non patrimoniale vada riferita appunto al danno in quanto tale, rectius al diritto costituzionale alla tutela risarcitoria), a situazioni giuridiche degne della medesima ovvero i soli diritti fondamentali.

Altro, in realtà, è il tema dell’ambito delle situazioni giuridicamente apprezzabili e meritevoli di tutela (tutte tranne le aspettative di mero fatto), rispetto al tema, più accademico che altro, della giusta collocazione del danno non patrimoniale, ulteriore e diverso dal danno morale strettamente inteso.

Chi scrive, dunque, non ritiene che i citati recenti approdi della giurisprudenza della S.C. e della Corte Costituzionale tolgano o aggiungano alcunché ad un dibattito che la giurisprudenza di merito da molti anni ha pienamente scevrato e colto nei suoi termini essenziali.

In ogni caso, anche alla luce dei detti citati pronunciamenti, non v’è dubbio che anche astrattamente il caso di specie rientri a pieno titolo nelle ipotesi descritte: si tratta in tesi di un danno non strettamente morale; fa capo ad un diritto soggettivo assoluto certamente di valenza costituzionale, appunto il diritto di ogni figlio all’assistenza morale e materiale di ciascun genitore.

Che nella specie detta assistenza non vi sia stata, non ve ne sia stata parvenza, è fuor di dubbio.

Non rileva in questa sede tentarne di dedurne le ragioni.

Invero tale impostazione può essere utile ai soli fini, non certamente etici, di individuare l’ambito di una lesione, salva la relativa qualificazione, e tentare, assumendone provati i fatti costitutivi, una quantificazione possibile, anche in via ineludibilmente equitativa.

In effetti l’attrice allega detta voce di danno: il danno, che lo si definisca pure esistenziale (le parole e le definizioni servono alla dottrina più che agli uomini e alle donne che agiscono per la tutela dei propri diritti), derivante dalla totale ed immotivata privazione dell’apporto paterno, qualsiasi ne fosse stato, se esercitato, il contenuto e il precipitato.

Non lamenta, per così dire, il cattivo esercizio di un obbligo: lamenta la totale assenza dell’adempimento dell’obbligo medesimo.

Lamenta, dunque, la privazione assoluta di un padre, quello vero, reiterata e consumatasi negli anni, sino alla maggiore età e, a ben vedere, perdurante.

Il fatto, storicamente indiscutibile, ha comportato, in sé, un danno?

La risposta non può essere univoca, ferma l’azionabilità, per quanto osservato, della pretesa.

In tesi la presenza di un padre oppressivo o particolarmente ignorante, ovvero culturalmente violento, ovvero ancora palesemente immaturo rispetto alla funzione che la natura gli ha dato (se non imposto, perché no?), può costituire presenza ben più alienante di una mera assenza: tanto più nel caso, come nella specie, in cui altri abbiano preso sostanzialmente cura della interessata.

Se l’art. 30 della Costituzione fosse eticamente interpretato nessun genitore, ragionevolmente, andrebbe, astrattamente, esente da censure.

Il rischio, palese per chi scrive, è, allora, la lettura distorta delle norme citate.

L’art. 30 II comma non si limita ad imporre allo Stato una funzione assistenziale sostitutiva.

Dice, cosa ben più importante, che i figli non appartengono, come sarebbe argomentando nazionalsocialisticamente, allo Stato medesimo; che ad esso e alle sua diramazione autoritative, anche alla giurisdizione, certo non è dato un potere di valutazione, in chiave di dover essere, per così dire eticheggiante, delle modalità dell’esercizio delle funzioni genitoriali.

In sostanza è del mondo che sono i figli: ai genitori l’obbligo, forse meglio dire il compito, di contribuire, per quanto possibile, alla loro educazione, con progressivo prudente inserimento di dati, utili, per quanto di ragione, ad uno sviluppo sereno del bambino.

Non si esige una costante qualificata presenza (quali i parametri di valutazione?); non si esige l’appropriazione di un ruolo (come valutarne l’apporto concreto in termini di contributo fattivo; forse alla mera luce delle ore trascorse insieme senza alcuna valutazione qualitativa?); non si esige un risultato.

Più semplicemente, ex art. 30 Costituzione, si esige lo spiegamento di forze, qualunque ne sia l’esito: in altri termini tutto, o quasi tutto, salvi i maltrattamenti, purché al fatto naturale del concepimento, proprio ad ogni specie animale, non consegua il mero disinteresse, la morte presunta, per così dire, della figura genitoriale.

Ed ecco allora, poiché detta morte presunta, nella specie, si è consumata per certo con tutto quanto ne consegue in termini schiettamente privativi, che il tema si sposta sul piano probatorio e ancor prima eziologico.

Date le predette coordinate (il dovere genitoriale di essere in qualche modo presente; nella specie la totale immotivata reiterata e perdurante assenza del padre quivi convenuto), ebbene F. V. ha sofferto conseguenze lesive, manifeste e apprezzabili, nel suo percorso di maturazione e crescita evolutiva, fossero anche esse, come è ovvio nella specie, fortemente legate alle stesse valutazioni soggettive dell’interessata?

Soccorre, in primo luogo, il dato tanto ovvio quanto empirico per il quale la circostanza, comprovata, di una totale assenza di contributo assistenziale, oltre l’ambito strettamente patrimoniale, sia, ragionevolmente, foriera di conseguenze lesive.

F. ebbe negli anni, ma solo progressivamente, l’apporto, anche affettivo, dei nonni e del marito della madre: ma appunto solo progressivamente.

Come riferito al c.t.u., e non v’è ragione di non credere alla interessata, (d’altra parte il convenuto contumace nulla ci dice in merito), la bambina conosceva sin dall’età di tre anni l’esistenza di un padre naturale che non viveva con la famiglia; a tutt’oggi, su domanda del perito, indica nella madre la persona di riferimento, con la quale sostituì, in sostanza, il padre; nega di avere maturato, ma sarebbe strano il contrario, sentimenti affettivi negativi verso la figura assente; ricorda, con senso critico, osserva il c.t.u. sufficientemente elaborato, un senso di diversità rispetto ai compagni ai tempi della frequentazione delle scuole elementari, un qual certo disagio ovvero disorientamento nel dover riferire il cognome della madre; l’attrice, F., è, a tutt’oggi, a conoscenza del tentativo del padre naturale di inviare, senza successo, la madre ad una interruzione della gravidanza; ricorda di avere sostanzialmente fantasticato sulla figura paterna, non avendo altri dati a disposizione, sino, tuttavia, alla maturata e determinata decisione di rintracciarlo; descrive, e si tratta di fatti interessanti ai fini di causa, l’ansia che ha accompagnato la ricerca, la brevità del colloquio infine ottenuto; la maturazione di aspettative per altri incontri costruttivi, sino allo scambio dei rispettivi numeri di telefono; l’esito sostanzialmente negativo di tale tentato contatto, sino all’abbandono del relativo disegno; la delusione provata nella constatazione, affatto scontata, a ben vedere, del detto esito così deludente.

Quanto al resto, ma per ogni altra valutazione per così dire storica, si fa espresso rinvio alla c.t.u. e alla relativa anamnesi aut colloquio, la perizianda vive con serenità, oggi, un proprio autonomo rapporto affettivo.

Non ha sviluppato, come già osservato, alcuna apprezzabile patologia, non emergendo elemento alcuno dal punto di vista di alterazione psicopatologicamente apprezzabile, data l’assenza, appunto, di sintomi di disturbi comportamentali.

Ma non è di questo, di un danno biologico chiaramente da escludersi, che si va ora discorrendo.

Dunque, anche alla luce delle dichiarazioni della interessata, ma si legga anche l’esito dell’indagine istruttoria testimoniale, il convenuto non ha mai contattato né tentato di contattare la figlia; una volta trovato, sembra proprio la parola giusta, con ogni ragionevolezza, non ha messo la giovane nelle condizioni di maturare un seppur tardivo contatto.

F. è consapevolmente cresciuta nella consapevolezza di avere un padre (quello vero) completamente assente; il marito della madre ha avuto un ruolo certo positivo, peraltro mai vissuto come sostitutivo.

Non si è verificato, e questo appare ragionevole, come osservato dal c.t.u., un improvviso distacco: bensì, più realisticamente, una totale assenza, tuttavia nota, consapevolmente nota, all’attrice.

Con specifico riferimento a tale descritto ultimo deludente esito della annosa vicenda, non trascurando certo il lungo tempo trascorso, ritiene dunque provato il Tribunale che la totale assenza della figura paterna sia stata avvertita e sofferta, seppur con la fortunata esistenza di strumenti compensativi che hanno consentito alla giovane di sviluppare con sostanziale equilibrio la propria personalità.

Ciò detto, malgrado l’assenza di esiti apprezzabili sul piano psicopatologico, nonché valutato, anche sulla base della c.t.u., il relativo predetto equilibrio complessivo e l’assenza di turbe comportamentali, vi è stata e v’è lesione del diritto fondamentale dell’attrice all’apporto anche morale ed assistenziale chiaramente mancato.

Trattasi di un coacervo di situazioni e fatti, apporti concreti, i quali, a prescindere dalla qualità del di loro contenuto, certo non giudicabile dallo scrivente, non sono stati forniti, malgrado l’obbligo di legge relativo.

L’effetto privativo, tanto premesso, è eclatante: nello sviluppo della propria personalità, nel coacervo delle scelte esistenziali della crescita di cui l’attrice avrebbe potuto godere, con un contributo, con le modalità, i tempi ed i criteri, sostanzialmente non sindacabili, offribili dal convenuto, F. non ha in sostanza ricevuto alcunché.

La violazione del detto diritto fondamentale – il diritto alla educazione, alla assistenza non solo economica, comunque mancata – è stato in effetti reiteratamente violato: in effetti ne perdura, senza nessuna giustificazione, la violazione.

La percezione di quanto sopra da parte della interessata, che in tutti questi anni non ha ricevuto alcun segnale da chi aveva, volente o nolente, che importa, contribuito alla di lei generazione, ne è la prima prova, in uno con elementi presuntivi di intuibile comprensione.

La consapevolezza, infine raggiunta, dalla attrice di essere stata trattata come il figlio di un mammifero di specie diversa da quella umana (sebbene molti mammiferi, a ben vedere, pongono a lungo cura alla prole), è in sé una conseguenza lesiva della altrui condotta illecita e merita un risarcimento riequilibratorio.

La relativa domanda va dunque accolta.

Quanto alla non semplice entificazione del danno soccorre, nell’economia di liquidazione equitativa, il coacervo degli elementi di fatto ricordati, anche con riferimento all’intensità del dolo, riflesse nella percezione della danneggiata.

Il convenuto, a quanto è dato di conoscere in causa, una volta rifiutata la paternità, per ragioni che, si ribadisce, non hanno rilievo, si è creato una famiglia e una professionalità: la circostanza aggrava, per così dire, la valutazione della di lui condotta dal punto di vista della percezione negativa che della stessa ha avuto l’attrice, con quanto ne consegue in punto intensità dell’immotivata dolorosa privazione di un apporto che la Costituzione le garantiva (le avrebbe dovuto garantire).

Tutto ciò premesso, con riferimento alla sola posizione processuale dell’attrice F. V., si liquida, al titolo in esame, danno non patrimoniale non coincidente con il mero danno morale come già entificato, l’ulteriore importo di euro 50.000,00, somma anche in questo caso espressa in valori attualizzati e comprensiva degli interessi compensativi maturati e scaduti.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

Sentenza esecutiva.

P.Q.M.

1) In accoglimento, per quanto di ragione, delle domande, CONDANNA il convenuto A. L., ai titoli di cui in motivazione, al pagamento in favore delle attrici, in solido, della somma di euro 80.000,00, e, in favore della sola F. V., dell’ulteriore importo di euro 50.000,00, somme entrambe comprensive degli interessi legali maturati dalla domanda;

2) CONDANNA il convenuto alla rifusione in favore delle attrici delle sostenute spese di lite che si liquidano in complessivi euro 7.550,00, di cui euro 4.100,00 per onorari, euro 3.050,00 per diritti e il residuo per spese, oltre I.V.A., contributi e rimborso forfetario;

3) Onere della c.t.u. a carico definitivo di parte convenuta;

4) Sentenza esecutiva.

Venezia, 16.6.2004

Il giudice istruttore giudice unico

Enrico Stefani

pubblicata il 30 giugno 2004



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