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I diritti dell'uomo riposano sulla sua dignità di essere creato (Divagazioni nel regno dei ricordi).


di Remo Guidi - Storico

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Se nell’epoca attuale c’è una parola inflazionata, probabilmente, è quella dei diritti, ed è un fatto veramente curioso perché li reclamano tutti (senza distinzione di età, sesso, condizione), e dovunque (scuola, casa, famiglia; nelle isole e nei continenti; in pianura e in montagna); se c’è un’esigenza, pertanto, in grado di mettere d’accordo paesi e città, nazioni e continenti, dunque, è proprio quella tesa a difendere i diritti, anzi ad estenderli oltre ogni fantasia. Ma se i traguardi per cui la gente scende in piazza, sciopera e combatte gli spettano per legge o meriti acquisiti, devono esserci dei cattivi che non vogliono concederli; o forse, mi si obietterà, c’è gente la quale reclama poteri, privilegi, esenzioni, prerogative, che non dovrebbe ripromettersi.

Ma proseguendo lungo questo dosso, troppo ripido, il discorso rischia di non sollevarsi nemmeno un palmo da terra, e qui, probabilmente, la mia disamina ha perso subito qualche supporter, in quanto non esclude l’eventualità di una certa confusione pregiudiziale da parte di quanti confondono i diritti con le istanze velleitarie o, ad essere più espliciti, con le pretese.

Meglio, dunque, dirigere l’obiettivo su un altro versante, e non per ritrovare l’unanimità dei consensi, ma per porre in luce le rivendicazioni inalienabili della persona, quelle, per intenderci, che, se venissero a mancare, lederebbero la sua autonomia, offendendone gravemente la dignità. Qui, allora, si parla di presupposti della civilis disciplina che fanno parte del genoma di chiunque ne è parte, e il difenderli non implica, di necessità, tendenze moralistiche, o intenzioni barricadere: infatti non si sta chiedendo della beneficenza né si ricorre al patronato, perché il diritto si fonda sulla legge e sulla giustizia; non si può essere accusati di bellicosa arroganza, perché si va a difendere quello che ingiustamente fu sottratto, e il non farlo non sarebbe senza ignominia.

Forse che il Manzoni non maledisse la protervia dei prepotenti, per deprecare subito dopo la balordaggine di chi si faceva estromettere dalla sua terra?

E tuttavia in una società a forte espansione si ha di fronte un tessuto connettivo che di continuo si rimette in discussione, di continuo allarga i suoi campi d’indagine; e, all’interno di questa impaziente dialettica, accade di riconsiderare quello che un giorno sembrava pregresso e acquisito, per sottoporlo a modifiche o, addirittura, espungerlo in quanto inutile se non proprio dannoso.

Consapevoli di ciò i saggi del buon tempo antico dissero che non esistevano novità in assoluto, e racchiusero il convincimento in un aforisma denso di concettosa assolutezza: nihil novi sub sole; e a ben leggere nella nostra storia, l’attualità di oggi ha radici molto antiche, anche nel dibattito sui diritti della persona.

C’è, ad esempio, una trancia nella storia occidentale di grandissimo richiamo per studiosi in ogni parte del mondo, nota con il nome di Umanesimo sorto da noi nel Quattrocento, le cui conquiste e i cui programmi emigrarono in Europa, innescando dovunque una serie di riflessioni e richieste morali divenute, con il tempo, istanze prioritarie in qualsiasi consorzio civile.

Ricorderò, dunque, come nel Quattrocento ci fu una vivacissima riscoperta della classicità, non solo perché ritenuta modello di inarrivabile perfezione estetica, ma perché nelle sue conquiste culturali si videro i percorsi da cui gli uomini mai avrebbero dovuto allontanarsi, pena un regresso nei regni degli istinti peggiori.

Ebbene, una delle prime esigenze rilanciate dall’Umanesimo consistette nell’allargamento degli ambiti mentali della persona, in virtù della sua stessa cifra costitutiva, come già piacque a Terenzio la cui massima, ciclicamente riproposta nella trattatistica dialogica, nelle polemiche e nelle epistole, va considerata una sorta di sigla di struggente attualità: "homo sum et nihil humanum a me alienum puto". E in questo tracimare oltre i limiti dell’egoismo, nel trascendere la grettezza del "particulare", per dirla col Guicciardini, si aprivano grandi varchi non solo nei domini gnoseologici, ma antropici volti alla riscoperta e al rilancio di quanto aveva attinenza con l’uomo, il quale, stando a una concisa esclamazione di Giovanni Pico della Mirandola, trascendeva qualsiasi aspetto del creato, per assurgere a una univocità irripetibile: "magnum miraculum est homo".

La stupita esclamazione comparve nella Oratio de dignitate hominis, una sorta di manifesto sulla centralità cosmica dell’uomo, riscoperta da un umanista dalle ambizioni culturali che non conobbero limiti, le cui istanze in quella celebre pagina possono considerarsi pregiudiziali per ogni vivente; e Pico le affidava a una lingua in grado sedurre il lettore più svagato, calandole all’interno di una allegoria che conserva, a distanza di secoli, il fascino di una fiaba e l’incanto di una magia.

L’umanista dunque, immaginò che il Padre Eterno, dopo aver creato il mondo, ne rivedesse l’immensa compagine per attribuire a ognuno un compito specifico; e fu così che, da ultimo, gli comparve davanti un essere fragile, riservato e timido, ingenerandogli una sorta di imbarazzo per una non facile collocazione nel concerto di quella sua opera, pur tanto vasta e differenziata. Fecero seguito alcuni attimi nel corso dei quali l’Eterno parve, addirittura, trovarsi in una sorprendente posizione di stand by, da cui ne uscì rivolgendosi in modo diretto a quell’essere di non facile collocamento per dirgli: "tu non sarai costretto dentro nessun vincolo, ma ti regolerai a tuo arbitrio, perciò ti colloco in una zona mediana, perché possa osservare con tranquillità quello che il mondo ti offre; non ti affido nessun compito specifico e non ti situo in un luogo determinato: sii l’arbitro di te stesso per elevarti all’altezza degli angeli, deprimerti al degrado dei bruti".

Dunque il diritto all’autodeterminazione è peculiare nell’uomo, sì da non doverlo neanche reclamare perché lo rivendicano le fibre della sua configurazione, sulla quale gettava sguardi attoniti Giannozzo Manetti, altro umanista, nel De dignitate hominis, libro nel quale l’uomo si presenta come una creatura dotata di un’anima, provvido, sagace, in possesso di un corpo nobilissimo non paragonabile a quello degli altri esseri, con i quali pure condivide la materia costitutiva; nell’organigramma del creato egli, in qualche modo, risulta una sorta di divinità su cui tutto sembra convergere, quasi fosse un centro gravitazionale in grado di connettere, con rapporti di complementarità, le varie forme viventi, soggiogandole a un piano di armonica contemperanza.

Nella concezione del Manetti l’uomo è un principio attivo non un qualcosa di anonimo; e ancora una volta a imporlo non erano la cultura, gli ascendenti o la ricchezza, e nemmeno le sue qualità, eccelse o mediocri che fossero; l’uomo, per il fatto steso che è nato, ha il privilegio di scegliere, esprimersi e vivere negli ambiti a lui congeniali. Princìpi condivisi pienamente da Guarino Guarini, il più grande maestro del Quattrocento, istitutore di Leonello d’Este, marchese di Ferrara, che qui, però, parlava in generale prescindendo dal blasone, dalla fama e dal potere. E visto come ho nominato in marchese, sia lecito portare inscena un re: Alfonso d’Aragona, il monarca più munifico di quanti ne ebbe l’Italia del Quattrocento, si circondò a Napoli di una piccola galassia di dotti tra cui Antonio Panormita (non sempre immerso nella scrittura di libelli pruriginosi come l’esecrato Ermafrodito), il quale ci tramandò, nel delizioso latino della sua raccolta di apologhi, la sapida risposta di Alfonso a un cortigiano, che lo esaltava oltre ogni limite, "per essere egli re, figlio di re, nipote di re, fratello di re e su su di questo passo; ma Alfonso lo interruppe dicendogli che quelle cose di tanto rilievo per l’interlocutore, non le curava affatto essendo degli altri, non sue".

Il munifico re di Napoli ripropose i convincimenti di Seneca (spagnolo anche lui), che, in una epistola a Lucilio, aveva scritto: "uomo nobile è quello che ha l’animo ben disposto alla virtù, in quanto la nobiltà non ce la dà il salotto pieno di ritratti affumicati degli avi, perché nessuno visse per procurarci prestigio, né possiamo rivendicare come nostro quello che altri fece prima che noi nascessimo". Il tema, suscettibile di flessioni anche caustiche, fu ripreso dal mordace Giovenale il quale, rivolto ai Romani dei suoi giorni, sentenziò: smettetela di darvi delle arie, provenendo tutti da antenati ignobili ("ab infami gente deducis asylo Maiorum primus, quisquis fuit ille, tuorum Aut pastor fuit, aut illud quod dicere nolo"); e l’allusione alla lupa che allattò i gemelli, e al pastore Faustolo loro da padre virtuale, risulta così lapalissiana da vietarmi di insistervi .

Da quanto detto si potrebbe evincere che in quell’epoca ormai remota, la persona, difesa da tanto autorevoli personaggi, vivesse senza problemi, all’interno di una dimensione dai ritmi più blandi degli attuali, da cui, invece, siamo tanto afflitti; forse che non era stato proprio Menandro a diffondere il convincimento che gli uomini non sarebbero mai riusciti a definirsi così bene, come quando si fossero decisi a fare…gli uomini (frammento K 761)? Ed estendendo questo auspicio al tragico mondo della guerra Agesilao puntualizzava che perfino i soldati, nei rapporti con i prigionieri, dovevano ricordare che i vinti, a dispetto dei ceppi, non erano, e non potevano essere, identificabili con i disonesti. L’oggettività della rivendicazione finisce per colorarsi di umorismo quando si ripensa, ad esempio, a quella faraonica cena di Trimalcione, nel corso della quale il bizzarro protagonista, proprio perché si parlava di tutto saltando di palo in frasca, se ne uscì in difesa degli schiavi ("et servi homines sunt, et aeque unum lac biberunt etiam si illos malos fatus oppressit"); Trimalcione parlava da liberto, ma Petronio, grande notabile dell’epoca neroniana, dalla cui fantasia era uscito quell’eccentrico personaggio, fu di tutt’altra idea e odiò visceralmente il popolo, né mi risulta che per gli schiavi avesse tendenze diverse: "odi profanum vulgus et arceo"! ripeté nel Satyricon, citando ad litteram Orazio.

E in realtà la cronaca sta lì a dire che gli sconfitti, insomma i deboli, i poveri, gli individui fuori quadro, hanno sempre avuto un’esistenza grama, a dispetto delle rivendicazioni avanzate da un fragile manipolo di teorici, contro i quali si abbattevano i frangenti del capitalismo, della cronica instabilità politica, o la miopia imposta da un lungo ordine di interessi egoistici. E infatti Leonardo Vinci, uomo con incalcolabili poteri di anticipo sul suo tempo, si espresse in materia nei termini meno compatibili con il suo genio profetico, e con forte senso subalterno verso quelli che in futuro sarebbero risultati gli aspetti più fragili della sua epoca: "non mi pare - affermava - che gli uomini grossi e di tristi costumi e di poco discorso meritano sì bello strumento quanto gli uomini speculativi ma solo un sacco dove ricevere il cibo e donde esso esca".

E le impietose conferme giungono quando si studino i suoi schizzi per il progetto di una città ideale, ricchi di audaci innovazioni avveniristiche, perché "l’artista schivo e solitario prova ribrezzo – scriveva un suo sensibile interprete mezzo secolo fa - della promiscuità, del disordine, del frastuono, del sudiciume, del lezzo gravanti nelle vie tortuose ed anguste, tra basse casupole ammassate, dove la plebe si assiepa a ‘modo di torme di capre’. Ne nasce un’avversione profonda verso la vecchia città medievale […], anarchica […], ingombra di folla sudicia […] in un ambiente fetido e malsano". Per la ‘poveraglia’ non c’erano alternative, né migliorie.

I novellieri non si dimostrarono affatto più sensibili al punto che Gentile Sermini, procace e scollacciato narratore ‘candidamente’ negava agli umili ogni umanità ("miglior detto sarebbe non uomini […] ma animali bruti chiamarli"); non fece meglio Matteo Palmieri il quale ritenne nel Della vita civile che per rendere ubertosi i raccolti bisognava prendere a calci i contadini ("domandato cosa massimamente ingrassava i campi rispose: le pedate del padrone"); Leon Battista Alberti nel De Architectura sostenne l’opportunità di tenere sempre d’occhio gli uomini dei campi per evitare che rubassero gli attrezzi da lavoro, e volle la casa dei padroni lontana dalla sporcizia della servitù ("et ministrorum omnis inlauticies separabitur"); anzi nella stessa città ideale dell’Alberti, gli abbienti (ditiores) dovevano vivere all’esterno della cerchia riservata "ai venditori di polli, ai macellai ai cuochi", e ai loro simili sfaccendati (ignavaque […] turba).

Probabilmente lo stesso Cicerone, idolo di ogni umanista, quando entrò la prima volta in senato dovette diffondere in quel consesso analoghe sensazioni di repellenza, perché "quamvis egregius", stando al Sallustio, fu ritenuto poco elegantemente un parvenu e dunque in grado di macchiare il prestigio del Campidoglio; ma il grande Arpinate aveva già risposto a quelle velenose insinuazioni nel De repubblica, in pagine in cui si legge che l’unico e autentico decoro a una persona può darglielo solamente la virtù. Messaggio raccolto e valorizzato da Dante che nel Paradiso, mise nello stesso cielo Piccarda Donata e Costanza d’Altavilla, Romeo di Villanova e l’imperatore Costantino.

Queste, però, potrebbero essere ritenute teorie, perché si hanno segnali di tutt’altra polarità.

I meriti dei Mendicanti nell’Età Umanistica sono innumerevoli, al punto che è difficile quantificarli, e parlarne con una certa competenza per l’estrema varietà dei loro contributi, apertisi a ventaglio sull'economia, la politica, la teologia, le scienze, le arti figurative e quant’altro; in particolare qui dovrebbero essere ricordate le loro pregevoli iniziative a sostegno delle classi più disagiate con i monti di pietà e ‘frumentari’, gli ospedali, le prediche a forte angolatura riformistica per ridurre l’esosa fiscalità del Palazzo, spingere la partitocrazia a deporre le armi ecc. ecc. E tuttavia quando si parlò di classi sociali i frati finirono per dimostrarsi veri figli del loro tempo: così difesero preclusioni oggi del tutto incomprensibili con le quali la faglia tra le varie componenti della società acquistava la rigidezza dei blocchi, posti per sbarrare ogni possibile osmosi tra i diversi gruppi dell’agglomerato urbano. Apro una piccola parentesi.

Nel secolo XV si discusse a lungo sull’abbigliamento delle donne, giungendo a redigere nelle leggi suntuarie una serie di prescrizioni oggi offensive, ma che in quell’epoca trovarono proprio nei Mendicanti i più validi sostenitori; il beato Giovanni Dominici sanciva: "non appetisce contadina corona di perle, bene la vegga in testa alla contessa; e nel suo grado le pare essere ornata con un frenello d’occhi di pesce, o osso d’ostrica che si chiama madre perla, come la gentil donna delle perle vere o balasci fini". E si giunse perfino a una vivace polemica che vide in campo da una parte il canonico Matteo Bossi e dall’altra Guarino, i quali si dettero battaglia il primo per negare alle donne il diritto al trucco e l’altro per difenderlo.

Ad Acquapendente prescrissero, (1464), dietro la spinta risolutiva di due Francescani che nessuno, "cuiuscumque gradus et conditionis existat", poteva investire nell’abbigliamento più di un terzo della dote; si dettero norme, inoltre, sull’abito nuziale, le scollature ("quod excedant duos digitos a parte anteriori de scolatura, et tres digitos a parte posteriori"), e perle ecc. ecc.; delle eventuali inadempienze dovevano farsene carico morale quelli del Palazzo ("vui ordinatori"), e intanto per i trasgressori si comminava la scomunica. Ma su questo tema intervenne, con la solita acutezza e rigidità, s. Giovanni da Capestrano con un intero trattato (De usu cuiuscumque ornatus et de ornatu mulierum) per ripeter quello che tutti sapevano e nessuno osservava (al re spettavano abiti meno fastosi che all’imperatore e, sempre scalando, il lusso esibito andava scemando dal duca al barone, ai dottori ai mercanti); ma anche nell’arte venatoria c’erano regole da rispettare, e gli uccelli da preda non potevano essere usati indistintamente da questi o da quello (si veda in proposito Dancus rex, Guillelmus falconarius, Gerardus falconarius. Les plus anciens traités de fauconnerie de l 'occident publiés d' après tous les manuscripts connus), in quanto la caccia restava l’espressione necessaria di uno status symbol, con la quale dare spettacolo della propria opulenza. Perciò le leggi suntuarie e quelle sulla caccia servivano ad esercitare un controllo sociale e politico e a "differenziare la classe dominante dagli altri gruppi sociali: la piccola borghesia cittadina, il popolo minuto, i villani".

La sensibilità attuale per i diritti, in precedenza adombrata da alcuni teorici, era ben lungi dall’essersi guadagnata nella realtà il credito che pur meritava; la persona come essere irripetibile, scisso dalla visibilità concessagli dal contesto sociale, avulso dai bagliori della ricchezza, spoglio del prestigio riverberatogli dalla divisa di appartenenza, era e restava ben poca cosa; quando gli individui riuscivano a imporsi, spezzando la forza gravitazionale del ceppo di origine, era perché si faceva ampio ricorso alla violenza. I diritti che spettavano alla persona come essere sul quale Dio stesso aveva posto il sigillo (signatum est super nos lumen vultus tui, Domine, recita il salmo) venivano conculcati in modo sistematico, forse per un fraintendimento dei contenuti racchiusi da Innocenzo III nel suo deprimente De miseria humanae condicionis, dove rileggono le cose meno nobili sull’uomo, deridendone i limiti e la debolezza nei confronti degli stessi animali; e converso il recupero dei valori esistenziali e della integrità erano gli avamposti da cui, più tardi, sarebbero nate, in modo assai più deciso, le richieste per mettere al bando la tortura, i trattamenti efferati, inconciliabili con i diritti della persona umana; ma nel frattempo Girolamo da Praga e Iacopo Bonfadio finiranno sul rogo, come Pico della Mirandola e Callimaco Esperiente andranno all’estero per sottrarsi (ma il primo verrà presto ripreso) ai segugi dell’ortodossia sempre vigili nel reprimere ogni distacco dai canoni.

La difficoltà di rendere complementari i diritti del singolo con quelli della collettività, resta uno dei traguardi più ardui a conseguirsi anche al giorno d’oggi; dall’antica Atene, comunque, giunge un messaggio di struggente attualità: dopo che Euripide ebbe fatto rappresentare la sua umanissima Medea, si trovarono stele funerarie di matrone fattesi seppellire a fianco delle schiave.

Se però deve essere la morte a convincerci che siamo tutti uguali, è meglio rinunciare ai diritti per difendere, ad ogni costo il buon nome, complice l’esempio di Filippo il Macedone, re e padre di Alessandro Magno, il quale (stando a una memoria di Demostene) si disse pronto a disfarsi di qualsiasi parte del corpo, pur di vivere con il resto nell’onore e nella fama.



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