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L'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa.


di Giovanni Barberini - Professore ordinario di diritto ecclesiastico - Università di Perugia

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Cercherò di attenermi al tema assegnato, vale a dire la presenza italiana per quanto riguarda in particolare l'argomento della tutela dei diritti umani nell'ambito dell'OSCE che è un fenomeno politico-diplomatico non molto noto per la verità.

Un fenomeno politico-diplomatico che prima è stato, per una lunga fase, più o meno dal '75 al '94, una Conferenza permanente inter-governativa e si chiamava Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa; alla fine del '94 e dal 1º gennaio '95 è diventata Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, quindi, marcando questa finalizzazione, dirò che si tratta di un'organizzazione molto sui generis o come si dice in termini più tecnici, una sorta di soft organization, perché manca un trattato istitutivo proprio dell'organizzazione e per di più è un'organizzazione che si è posta con un'auto dichiarazione, in uno dei suoi documenti più importanti, ad Helsinki nel '92, proprio come un'organizzazione regionale ai sensi del capitolo VII dello Statuto delle Nazioni Unite c'è da dire che questa sorta di autodichiarazione e di autocollocazione nel quadro delle Nazioni Unite ha segnato tutta una fase nuova dell'attività di questa prima Conferenza e poi Organizzazione, soprattutto per quanto riguarda la politica sulla sicurezza politico-militare in Europa e poi, in particolare, la tutela dei diritti umani, il processo di democratizzazione nei paesi dell'Europa centrale ed Orientale, l'affermazione dello Stato di diritto: c'è da dire che l'Italia è stata subito molto presente in questo fenomeno.

A Budapest, nel 1969, l'iniziativa fu presa dai paesi del Patto di Varsavia: per la verità quest'esigenza di una Conferenza paneuropea per la sicurezza dell'Europa, che inizialmente si muoveva sul principio dell'Europa agli europei, quindi con l'esclusione degli Stati Uniti, l'Unione Sovietica l'aveva sempre coltivata. Negli anni '60 (non sto qui a ricordare che cosa avveniva nelle relazioni intereuropee in quegli anni) l'Unione Sovietica esercitò una forte pressione politica soprattutto sui paesi della NATO e sulla comunità Europea, proprio per andare a questo incontro che avrebbe dovuto allentare la contrapposizione che in quegli anni era stata molto violenta.

Non è un caso che il 1969 viene dopo il 1968, cioè dopo la crisi acuta dei fatti di Praga e ci fu molta diffidenza, come è comprensibile, da parte dei paesi della NATO e della comunità europea davanti a questa iniziativa sovietica. Voglio sottolineare che il Governo italiano dell'epoca fu uno dei più aperti nell'ambito dei Paesi comunitari, a studiare questa proposta che veniva dall'Unione Sovietica e un'altra cosa che spiazzò quello che era lo scenario normale fu l'invito, la pressione politica che l'Unione Sovietica esercitò addirittura sulla Santa Sede affinché partecipasse a pieno titolo ai lavori di quella che sarebbe poi diventata la Conferenza di Helsinki.

Questo perché l'Unione Sovietica era interessata a che la Santa Sede svolgesse la sua pressione politica soprattutto su alcuni Governi della Comunità europea, su alcuni Governi del Patto atlantico, per affermare questa politica di distensione che avrebbe dovuto allentare la tensione che negli anni precedenti era stata così violenta.

A parte questo, l'Italia fu molto presente fin dall'inizio non solo con l'attenzione a questa iniziativa, ma anche per quello che poi fu il processo dalle prime consultazioni di Helsinki, con lavori della II fase, quando per tre anni si negoziò a Ginevra per mettere a punto quello che diventò l'Atto finale di Helsinki.

L'Italia lavorò molto soprattutto all'interno dei paesi comunitari ed ebbe come alleato la Germania che era molto interessata a questo processo di distensione (aveva come interesse il problema della Germania dell'est e tutte le questioni umanitarie presenti in quel particolare momento nel cuore dell'Europa).

L'Italia lavorò in particolare su due temi, sia appoggiando in pieno e facendosi addirittura portavoce di tutti i paesi comunitari per la proposta che poi diventò il VII principio del decalogo di Helsinki, vale a dire il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, sia appoggiando in pieno (e questa diventò una costante) la proposta presentata dalla delegazione della Santa Sede, che così faceva pagare il prezzo all'Unione Sovietica per quanto riguarda l'inserimento nel VII principio di quella formulazione specifica relativa alla libertà di religione, di culto che voleva dire, in quel particolare momento, libertà di pensiero.

Libertà di manifestazione del pensiero, libertà per la dissidenza, questo il primo punto dell'Italia per il VII principio; l'altro punto interessante di cui si fece portavoce e artefice, prima nell'ambito comunitario e poi nel negoziato di Ginevra, l'onorevole Aldo Moro, fu la politica mediterranea.

Questo fu un dato molto importante e su questo Moro in un primo momento cercò di convincere i suoi colleghi della Comunità Europea, e non fu facile, poi soprattutto si scontrò con la delegazione americana che alla fine accettò questo testo, che poi fu il capitolo sul Mediterraneo dell'Atto finale preparato dalla delegazione italiana e che si muove su questo principio.

Noi qui stiamo ragionando di sicurezza e cooperazione in Europa, ma non ci può essere sicurezza in Europa se non c'è sicurezza nel Mediterraneo e non c'è sicurezza nel Mediterraneo se non c'è sicurezza in Europa: fu un'intuizione, questa, nel '72 molto felice.

Gli Stati Uniti accettarono che si adottasse questo capitolo nell'Atto finale ad una condizione: che però la gestione delle questioni nel Medio Oriente, quindi praticamente nel Mediterraneo, rimanesse nelle loro mani. Moro assentì perché lo considerò, e questa fu un'idea poi ripresa, un punto importante di quel processo che si voleva mettere in moto, vale a dire, per una concezione globale della sicurezza in Europa. Questo fu molto apprezzato ed ebbe dei grandi riconoscimenti anche successivamente.

C'è da dire a questo proposito, che Moro, per esempio, firmò, quale Presidente del Consiglio e anche nella sua qualità di Presidente in esercizio del Consiglio delle Comunità europee, e questo fu molto importante per tutti i paesi del patto di Varsavia, perché si disse che le Comunità europee accettavano le conclusioni della Conferenza sulle materia di cui alle loro competenze sostanziali e procedurali.

Moro firmava l'Atto finale, oltre che come rappresentante dell'Italia, anche delle Comunità europee, sottolineando il fatto che i paesi terzi avrebbero avuto la garanzia che le conclusioni della conferenza sarebbero state attuate nei loro confronti da parte delle comunità nelle materie di loro competenza.

Per quanto riguardava l'attuazione delle conclusioni della conferenza i punti di vista delle comunità sarebbero stati espressi in conformità con i loro regolamenti interni, ogni qual volta si fosse trattato di materie rientranti nella loro competenza. Volle dare una garanzia ulteriore a quelli che erano chiamati i Paesi terzi.

Un punto importante di questo processo, e anche della presenza italiana, fu la Conferenza sui seguiti di Vienna cominciata nel 1986, terminata nel 1989 ed è quella Conferenza che contribuì ad aprire la nuova fase della storia politica del continente europeo.

L'Italia ancora una volta indirizzò i suoi sforzi verso il tema dei diritti umani e c'è da notare anche che la delegazione italiana fu chef de file per alcune questioni, e nel documento di Vienna ben 16 paragrafi riguardano il tema dei diritti umani; cioè si sviluppò in ogni direzione quello che era contenuto in embrione nel VII principio del decalogo.

L'Italia si adoperò moltissimo in particolare per quello che riguardò il problema della dimensione umana, ma c'è da capire tutta la complessità del negoziato sui diritti umani: per esempio l'Italia appoggiò molto i paragrafi relativi alla libertà di religione contenuti nel documento di Vienna, non soltanto per il tradizionale appoggio dato all'iniziativa dalla Santa Sede in materia, ma perché questi paragrafi, relativi alla libertà di religione, avevano delle ricadute politiche estremamente importanti.

Molte delle formulazioni proposte entrarono del testo finale dove c'è una ricaduta politica a margine o al di là del concetto stretto di religione. Si spiega così il forte appoggio dato dalla delegazione italiana agli interessi, per esempio, fatti valere dalla delegazione ungherese, che operava perché nell'ambito della libertà religiosa fosse compreso il diritto di impartire e ricevere un'educazione religiosa nella lingua di propria scelta: questa concezione ampia della libertà aveva delle ricadute di grande importanza individualmente o in associazione con altri e questo voleva dire rivendicazione di libertà di associazione completa davanti al regime, e la libertà dei genitori di assicurare libertà religiosa e morale conformemente ai propri convincimenti: era una forma di reazione allo Stato educatore. La rivendicazione aveva anche il significato di tutelare la lingua, le tradizioni e l'identità del popolo ungherese sopraffatto dalla sovietizzazione.

Su questo mi ricordo che ci adoperammo molto e l'Italia si impegnò anche sul problema importantissimo della pena capitale.

Questa è stata sempre una tormentata questione. Sappiamo che negli anni passati alcuni Stati europei, ma soprattutto gli Stati Uniti, erano fortemente contrari all'abolizione della pena capitale e ci furono degli scontri molto vivaci non solo a livello comunitario ma anche a livello dei 15, cioè del Patto atlantico. Quindi questo problema esplose e ad un certo punto si avanzò l'ipotesi che non si dicesse nulla in questo documento, pur così articolato in tema di diritti umani, sull'abolizione della pena capitale. Si cercò un escamotage e la formulazione fu proposta proprio dalla delegazione italiana, poca cosa ma si cercò, in extremis di far in modo che non scomparisse un qualsiasi riferimento su questo punto fondamentale e si disse che comunque la questione sarebbe rimasta all'esame. Questa fu la nostra proposta e tutti furono d'accordo.

Per quanto riguarda l'aspetto forse più caratteristico del documento di Vienna è quello della dimensione umana, una istanza non giurisdizionale evidentemente; una forma di pressione politica volle essere questo meccanismo della dimensione umana. In sostanza era l'obbligo che assumevano tutti gli Stati partecipanti di rispondere in via diplomatica alle istanze che tutti gli Stati potevano porre riguardo casi concreti. Questo significava mettere il dito nella piaga, perché cominciò un bombardamento, da parte delle delegazioni soprattutto occidentali, a tutela dei dissidenti chiamati nome per nome e la cosa più interessante fu che nessuno Stato, nessuna delegazione, nessun governo, neanche quelli che erano considerati i cattivi del gruppo, dopo i mutamenti che già erano avvenuti in Unione Sovietica con Gorbaciov, mi riferisco alla Cecoslovacchia, alla Romania, alla Repubblica democratica tedesca, nessuno di questi Stati eccepì mai questo interessamento adducendo il principio della non ingerenza negli affari interni.

Questo è il momento nella storia del continente europeo, naturalmente seguendo tutta l'evoluzione che c'è stata nella sensibilizzazione dell'opinione pubblica a partire dalla Dichiarazione universale in poi per quanto riguarda la tutela dei diritti umani, in cui avvenne questa saldatura, cioè la protezione dei diritti umani era diventato un elemento fondamentale delle relazioni internazionali.

Questo è il punto: non ci poteva essere democratizzazione, non ci poteva essere distensione nelle relazioni intereuropee se non era affermata la tutela dei diritti umani, elemento fondamentale per stabilire un buon sistema di accordi e di relazioni. Questo credo che sia un passaggio estremamente importante. Anche qui pensate che nei primi due mesi di vita di questo meccanismo, furono circa 150 le richieste di attivazione del meccanismo proprio per singole persone. Anche qui il Governo italiano si attivò in maniera particolare per Dubcek e il Governo cecoslovacco rispose adducendo le sue ragioni, ma non eccepì che era stato negato il visto di uscita a Dubcek per partecipare ad un congresso del partito comunista a Bologna.

Se mi è permesso un ricordo particolare fu il ministro Armellini - allora era il capo della delegazione italiana alla riunione sulla dimensione umana a Parigi - che portò a livello dei 35 proprio la questione di Dubcek e, non sapendo più che cosa eccepire dopo aver fatto tutti i possibili riferimenti alla legislazione cecoslovacca, da noi controbattuti, io ricordo che l'ambasciatore cecoslovacco disse: quest'uomo è stato la causa della rovina del nostro paese e quest'uomo non uscirà mai dal nostro paese. Naturalmente la storia lo ha smentito, però nel 1989 era dato vedere posizioni di retroguardia di questi ultimi regimi totalitari.

Una parola su una grande iniziativa italiana nel 1990. Alla riunione di Copenaghen l'allora Ministro degli esteri De Michelis, dette l'avvio a una iniziativa che risultò molto importante sul tema della tutela dei diritti delle minoranze nazionali e fu un'iniziativa concertata con l'allora pentagonale, quella aggregazione di stati dell'Europa centrale che ora è diventata "iniziativa centro europea", all'inizio siamo stati in quattro poi cinque, sei ecc.

Però è importante che la delegazione italiana alla Conferenza di Copenaghen sulla dimensione umana fu veramente protagonista. Presentammo una proposta molto articolata che andava dall'affermazione del diritto dei popoli all'autodeterminazione, pensando alla Cecoslovacchia, pensando certamente alla Jugoslavia ecc. (non nel modo in cui si è risolta, chiaramente), all'affermazione del riconoscimento delle minoranze nazionali, in quanto tali nell'ambito di un ordinamento dello Stato volto alla tutela dei diritti dei gruppi minoritari.

La pentagonale fece propria in buona parte questa proposta italiana che invece fu usata, mi si passi l'espressione, con la "politica del salame", cioè fu tagliata a fette soprattutto nell'ambito comunitario perché sappiamo tutti quali problemi sono ancora presenti: i Greci non ne volevano sapere, gli inglesi avevano grossi problemi per le questioni irlandesi, la Spagna diceva che non aveva problemi perché aveva le nazionalità, ma non c'era appoggio, per i Francesi non esiste il problema, perché il principio costituzionale dell'unità della Nazione francese è qualcosa che non pone problemi ecc.

Noi, i tedeschi, i danesi, ci siamo sempre trovati d'accordo sulla questione della tutela delle minoranze nazionali e c'è da dire questo, che il capitolo sulla tutela dei diritti delle minoranze nazionali così com'è venuto fuori nel documento di Copenaghen ha rappresentato la Magna Charta in mano a quello che è stato poi e lo è ancora, sotto il profilo politico, l'Alto Commissario per i diritti delle minoranze nazionali dell'O.S.C.E.

Tutto questo non è giuridico, è politico, riuscire ad imporre nuove legislazioni sui diritti delle minoranze nazionali in alcuni paesi a rischio, mi riferisco all'Estonia, alla Lituania, all'Ungheria, alla Slovacchia, alla Romania, questo è stato un po’ la Magna Charta di quello che le legislazioni nazionali dovevano recepire per assicurare la tutela delle minoranze.

Nel 1991, eravamo alla Valletta, il ministro De Michelis rievocò l'idea di Moro, per quanto riguardava il Mediterraneo e per quanto riguardava una sorta di cscm, parlava, cioè di Conferenza sulla sicurezza e cooperazione nel Mediterraneo con particolare riferimento alla tutela dei diritti umani e questo naturalmente, considerata la complessità del momento, ha segnato anche un po' l'insuccesso dell'iniziativa che voleva essere coraggiosa ed importante, ma certo che il problema della tutela dei diritti umani non è, ancora oggi, un problema che si può porre negli stessi termini in cui si è posto nel continente Europeo. Però il coraggio ci fu e di questo va dato atto al Governo italiano.

Un'altra importante presa di posizione si ebbe nel 1990, preparando la Carta di Parigi, quando si parlava di diritti economici e sociali e quindi della necessità del libero mercato ecc. Ci fu una proposta americana che lapidariamente affermava di inserire nella Carta di Parigi un principio così formulato: l'economia di mercato è il fondamento del benessere dei popoli. Il nostro capo delegazione, era ancora il ministro Armellini, saltò su, gliene devo dare atto, insieme a tutte le delegazioni comunitarie; naturalmente un principio di questo genere, così formulato, non poteva essere accettato.

E' vero che sotto l'influenza delle delegazioni comunitarie (noi avevamo la presidenza in quel periodo), questa affermazione, la libertà di mercato, l'economia di mercato entrò nella Carta di Parigi un po’ sfumata introducendo però anche il principio della solidarietà e della giustizia sociale, questo proprio come valore portato dalle delegazioni comunitarie.

Un periodo molto importante, ma non mi fermo su questo, fu quello del 1994, quando l'Italia ebbe la presidenza dell'OSCE, nella persona del ministro Bruni. Si ebbero i primi accordi con le Nazioni Unite; negli anni passati c'era sempre stata una certa difficoltà di rapporti non soltanto con le Nazioni Unite: quindi il rischio di duplicati, il rischio di identificazione nell'ambito delle Nazioni Unite, pur dopo l'auto dichiarazione di organizzazione regionale. Il problema erano le operazioni di peace keeping, le operazioni di mantenimento della pace, gli interventi, i monitoraggi, ecc. inoltre vi fu il tema dei rapporti con il Consiglio d'Europa.

Se mi permettete un ricordo personale, questa fu veramente una iniziativa del Ministero degli esteri italiano, in una colazione di lavoro, a Stoccolma con l'allora presidente, tutti intorno ad un tavolo, la troica dell'OSCE: c'era appunto la delegazione italiana, la signora La Lumiere, segretario generale del Consiglio d'Europa, il vice segretario generale delle Nazioni Unite per i diritti umani, alla fine la baronessa disse questo: finora abbiamo fatto polemica, gli interessi che abbiamo davanti sono gli interessi di tutti. Devo dire che fu quello il momento in cui cominciò a manifestarsi la volontà di cooperazione, di interazione fra Consiglio d'Europa e OSCE in particolare ODIR. Peraltro l'Italia dovette assistere, dopo aver tanto lavorato, ad un insuccesso, non suo, ma dovuto al grande litigio accaduto a Budapest, all'ultimo momento, nel 1994, fra il presidente americano e quello russo per quanto riguarda il ruolo della CSCE che sarebbe diventata OSCE.

Naturalmente prima i sovietici e poi i russi hanno mostrato molto interesse per questa organizzazione paneuropea, che dai 35 membri iniziali è passata a 55, comprendendo anche gli Stati dell'Asia centrale, quindi è un'istanza politica molto importante, e il ruolo della Russia dentro l'OSCE può essere ragguardevole, mentre gli Stati Uniti non sono stati mai molto entusiasti né di questa Conferenza permanente né di questa organizzazione, tant'è che le delegazioni comunitarie, per bocca della delegazione tedesca e di quella italiana, si erano fatte parte diligente per mettere a punto una proposta che era entrata nel progetto finale di documento, nel senso che prima di rivolgersi alle Nazioni Unite, l'Organizzazione regionale deve avere la possibilità e la volontà politica di tentare di gestire le crisi insorte, o meglio ancora di prevenire l'insorgenza delle crisi.

Era un'idea abbastanza ragionevole, però è chiaro che dietro c'era l'enorme problema del ruolo politico all'interno di questa organizzazione e il litigio fra i due presidenti fece cadere tutto il capitolo e ne sono rimaste quattro righe appena.

Per ultimo abbiamo avuto per tre anni il Segretario generale dell'OSCE, l'ambasciatore Aragona, oggi ambasciatore a Mosca e in questo periodo noi abbiamo due valorosi diplomatici proprio sul campo, uno l'ambasciatore Ungaro, capo della missione OSCE in Macedonia, e l'altro l'ambasciatore Sannino, capo della missione OSCE a Belgrado, e vorrei accennare brevemente al mandato che ha questa missione OSCE gestita appunto dal nostro diplomatico. Questa missione è innanzitutto impegnata in uno stretto rapporto di cooperazione con il Governo della Repubblica federale di Jugoslavia nei campi della democratizzazione e della protezione dei diritti umani, inclusi i diritti delle persone appartenenti alle minoranze nazionali in conformità con i principi dell'OSCE, con gli impegni assunti in particolare per quanto riguarda la promozione della democratizzazione, la tolleranza e lo Stato di diritto. Inoltre la missione dovrà operare in stretta cooperazione con l'ufficio delle Nazioni Unite e con l'Alto Commissario per i rifugiati, a supporto, per facilitare il ritorno dei rifugiati e quindi per poter lenire in qualche modo le vicissitudini di queste popolazioni.

Per concludere devo dire che il ruolo dell'Italia è sempre stato un ruolo convinto nell'ambito dell'Unione europea e della Comunità europea, su alcuni punti in certi momenti siamo stati anche trainanti.

Mi pare di cogliere, a parte la presenza di questi due nostri diplomatici sul campo, un raffreddamento in questa azione politica che invece a mio modesto avviso avrebbe un'enorme importanza, perché, non dimentichiamolo, è un'istanza politica che vede insieme e in un modo diverso quelle che possono essere le Nazioni Unite: per esempio, vede insieme tutti i Paesi dell'area Europea e dell'area Asiatico centrale per questo loro lento, difficilissimo cammino verso la democratizzazione.

Permettetemi ancora un ricordo personale. Si era a Vienna, alla fine del 1988, e c'era la fortissima resistenza dei cattivi del gruppo, così erano chiamati lassù i tedeschi orientali, i cecoslovacchi e i rumeni e c'erano già le aperture di Gorbaciov ed erano questi che si opponevano alla definitiva formulazione sul primo cesto, quello dei diritti umani.

Allora il nostro capo delegazione, mi chiese di andare a colazione con il capo della delegazione tedesca orientale per cercare di capire fino a che punto avrebbero detto no o se poi alla fine avrebbero ceduto. Oggi tutto può sembrare chiaro, ma allora non lo era naturalmente: qual era il prezzo che avrebbero chiesto, magari togliere qualche formulazione, far cadere qualcosa ecc. e allora il capo delegazione mi disse, senza tante storie, "io non riesco a capire se l'Unione Sovietica si rende conto di quello che sta approvando (si era sul punto delle questioni umanitarie) io non so se si rende conto che adottando questo testo il suo impero finisce". Questo mi disse alla fine dell'88 questo diplomatico che si rendeva conto e diceva: "noi alla fine dovremo cedere per forza però l'Unione Sovietica perde il suo impero". E' lì che effettivamente è iniziato lo sgretolamento anche se io sono convintissimo e l'ho scritto a più riprese, che il mutamento del continente Europeo effettivamente è cominciato col vento di Helsinki perché esisteva la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del '48, esistevano i patti del '66, però nelle relazioni internazionali è lì che è cominciato ad inserirsi il cuneo che ha demolito l'impero.



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