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Conclusioni.


di Giovanni Conso - Presidente emerito della Corte Costituzionale

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La serie di panoramiche che abbiamo appena ascoltato con innegabile profitto ha messo sotto i nostri occhi un quadro, se non totale, sicuramente idoneo a cogliere il crescente peso acquisito in concreto dai diritti umani negli ultimi anni, soprattutto in Europa.

Due gli aspetti più significativi, anche perché assunti a condizioni irrinunciabili, senza, quindi, alcuna possibilità di tornare indietro. Il primo riguarda i ricorsi individuali alla Corte di Strasburgo, ormai non più facoltativi e, quindi, automaticamente accettati dagli Stati che entrano a far parte del Consiglio d'Europa, mentre il secondo concerne il no alla pena di morte, presupposto tassativo per ulteriori ingressi nello stesso Consiglio, nel senso che, se ne è prevista l'irrogazione, o la si abolisce o la si rende almeno oggetto di moratoria. Quegli Stati dell'Est europeo, che ancora contemplano la pena capitale, pur di non rinunciare all'Europa hanno, a testimonianza di un'aspirazione davvero molto confortante, rinunciato a farne comunque applicazione.

Dopo la Carta di Nizza, in relazione anche alla crescente spinta verso una Costituzione europea, intesa come Costituzione dell'Unione europea, destinata, peraltro, ad allargarsi anche sensibilmente al di là dei quindici Stati che tuttora la compongono, il problema dei rapporti tra Consiglio d'Europa, con i quarantadue Stati che ne fanno attualmente parte, e Unione europea sono destinati a creare nuovi problemi.

Crisi di crescita o di coesistenza?

Quando i binari di marcia crescono di numero e le stazioni si moltiplicano, il vero rischio è che i possibili incroci creino equivoci e confusioni: dobbiamo conservare e rafforzare tutto quello che c'è, senza distruggere nulla, perché ciascuno di questi enti, ciascuna di queste "sedi", dà un contributo, magari soltanto ideale, alla causa dei diritti umani, per cui non possiamo privarci di nessuno, anche perché sono state create organizzazioni, uffici, personale specializzato. L'importante è distinguere bene le competenze, una regola questa che vale per ogni ordinamento anche interno: istituzioni, organismi, soggetti molteplici possono coesistere, se le rispettive sfere di competenza sono ben delineate e fatte rispettare. Altrimenti le confusioni diventano inevitabili.

Tra l'altro, è stata opportunamente ricordata la condanna dell'Italia perché la difesa d'ufficio non vi è regolamentata a sufficienza. La Corte di Strasburgo ha messo il dito su un classico esempio di risposta all'italiana: buona la forma, poca o nulla la sostanza. Non basta dire - questa la giusta risposta della Corte - che si è a posto con i diritti umani perché è assicurata la nomina del difensore, se, poi, il difensore d'ufficio non fa nulla.

Ciò che conta è l'effettività degli istituti di garanzia.

Un cenno, per finire, al più generale, veramente angosciante, tra i problemi creati dai tanti ritardi dell'Italia, emblematici quelli dei processi. Si continua a parlare della legge Pinto, addebitandola di non essere riuscita a risolvere il problema della durata ragionevole delle procedure giudiziarie. L'addebito non è puntuale. La legge Pinto non aveva, né poteva avere, quell'obiettivo. Tutt'altro. Cercava, invece, ed in buona parte ci sta riuscendo, di liberare la Corte di Strasburgo dal peso soffocante dei troppi ricorsi per violazione di quel diritto da parte dell'Italia, domandando l'accertamento e la determinazione del relativo indennizzo alle nostre Corti di appello, a costo di accrescere, e non di poco, il loro lavoro quotidiano, già gravoso, riducendo, nel contempo, almeno in parte, quello del giudice internazionale.

Si trattava - ecco il punto - di recuperare immagine dinanzi alla Corte di Strasburgo, cancellando in disagio, non solo materiale, provocatole da un continuo, incessante, disturbo per questioni, tutto sommato, non di alto livello, con pregiudizio di altre dal peso ben maggiore. Ecco perché il problema di accelerare i processi resta, facendosi ogni giorno più urgente.

A meglio capire il tutto, potrà giovare una piccola confidenza. Su questa legge Pinto hanno ironizzato in parecchi, dicendo che la riforma è una riforma all'italiana, una trovata alla Pulcinella, frutto di quell'estro italico capace di inventare cose bizzarre. La confidenza è questa: il disegno di legge che nel 1993 aveva tentato di attuare, nelle linee principali, quello che poi si è riusciti ad ottenere, grazie all'iniziativa tenace del senatore Pinto, è stato, non dico imposto, ma in qualche modo caldeggiato da chi presiedeva allora la Corte di Strasburgo.

Presidente e vicepresidente vennero a Roma per un incontro amabilmente definito di studio. In realtà, venivano per dirci che, di fronte al moltiplicarsi vertiginoso dei ricorsi denuncianti durate sicuramente irragionevoli di altrettanti processi italiani, era impossibile continuare così. Poiché nonostante i ricorrenti tentativi di riforme processuali, anche robusti, ma mai efficaci, il fardello non accennava ad alleggerirsi, non c'era ormai posto che per questa alternativa "o trovate l'escamotage per assorbire all'interno le tante doglianze in questione o proporremmo, se non la vostra uscita, la vostra sospensione dal Consiglio d'Europa".

Nessuna invenzione italica, dunque, nessun Pulcinella che abbia cercato di arrampicarsi sui vetri, ma un'indicazione precisa e proveniente da chi, avendo il potere di avanzare un certo tipo di proposte oltretutto motivandole in modo inconfutabile, non poteva essere sfidato, senza rischiare di veder minata alla base l'azione italiana in quella altissima sede a tutela dei diritti umani che è la Corte di Strasburgo.



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