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Diritti umani, identità culturale, libertà e benessere economico


di Sebastiano Maffettone - Direttore CERSDU - Centro di Ricerca e di Studi sui Diritti Umani Università Luiss

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Ringrazio molto gli organizzatori di questo evento. Non sono sufficienti solo argomenti per contribuire all’affermazione della pace e dei diritti umani. Serve anche l’immaginario collettivo, e convegni come questo possono giovare da entrambe queste prospettive. Due assunzioni bisogna fare per parlare di questo tema: una, la centralità della pace, che è stata d’altronde molto spesso richiamata, per riformulare il ricordato detto latino trasformandolo in "si vis pacem para pacem". Sono molto in sintonia, da questo punto di vista, con quanto si dice nella tradizione buddista prima richiamata. Credo, in sostanza, che la convinzione interiore non sia un elemento inutile nell’ottica di un’auspicabile pace universale. Naturalmente il problema sta nelle more, per così dire, perché con gli Hitler e gli Stalin, per esempio, la non violenza è una strategia di scarso respiro. La seconda assunzione riguarda, invece, il rapporto tra pacifismo religioso e centralità dei diritti. Il maestro Torinese di recente scomparso, Norberto Bobbio, così magistralmente ricordato prima dal prof. Conso, nell’ultima sua lettera, quella che fungerà da suo testamento spirituale ha scritto di essere ateo ma non agnostico. Questo ha molto a che fare con il sentimento, per cui la religione, anzi le religioni, e quindi anche il buddismo, nelle loro diverse tradizioni culturali e storiche servono a comprendere e a far vivere la pace. La pace bisogna porsela, quindi, come una specie di tabù, diciamo così, come un inviolabile limite della nostra esistenza; dall’altro, penso pure che fin quando tutti non diventeranno consapevolmente buddisti o qualcosa del genere non sarà possibile avere una pace perpetua come la voleva Kant. Al tempo stesso il linguaggio dei diritti è l’altro elemento essenziale. Dobbiamo essere consapevoli dell’insostituibilità del linguaggio dei diritti, in quella che Bobbio chiamava "l’età dei diritti", e soprattutto la necessità di avere progresso e riforme attraverso il diritto e non attraverso la violenza. Questa è una base da cui dobbiamo partire tutti per parlare di diritti umani.

In quanto alla tradizione dei diritti umani, è, questa, una tradizione chiaramente europea occidentale, una tradizione che, nata nell’antichità classica, si è perfezionata nella modernità ed ha avuto il suo trionfo concettuale nell’Illuminismo. Io parlerò dei diritti umani oggi. Ho diviso il mio intervento in quattro parti: la prima la potrei definire una sorta di ginnastica tassonomica, un pò di categorie sui diritti umani per vedere quali sono, a mio avviso, quelle più interessanti; la seconda parte è un breve richiamo alle Dichiarazioni universali, alla loro utilità, in un momento in cui molti parlano della necessità di una seconda Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. La terza parte riguarda alcune questioni interpretative, dove per interpretative intendo nel senso ermeneutico più vasto, cioè anche filosofico; nella quarta ed ultima parte farò un breve cenno alla necessità della regionalizzazione, in particolare attraverso l’Europa, che è ovviamente la regione del mondo cui siamo legati maggiormente per ragioni storiche e geografiche.

Tra le varie classificazioni dei diritti umani (quella che io ho chiamato la ginnastica tassonomica) due sono probabilmente quelle più comuni: la prima è la classificazione che possiamo chiamare generazionale, in cui si distinguono generazioni successive di diritti umani più o meno gerarchicamente ordinate: la prima generazione comprende i cosiddetti diritti classici, tra cui diritti civili e diritti politici, la seconda generazione i diritti sociali ed economici, la terza generazione, con una parziale sovrapposizione con la precedente, i diritti allo sviluppo tra cui ci sono anche quelli alla pace, allo sviluppo economico, al welfare per le parti del mondo, ancora troppe, che non hanno ancora un minimo di welfare, e la quarta, i cosiddetti nuovi diritti, collegati non solo ma anche a quella che ormai tradizionalmente si chiama bioetica. A questa classificazione alcuni contrappongono una classificazione per così dire categoriale, laddove i diritti non sono divisi in generazioni, come nella precedente, ma in diversi generi, che sono i diritti civili, i diritti politici, i diritti economico-sociali, i diritti culturali e i diritti, appunto, bioetici o comunque legati all’impatto della scienza e della tecnica nel sociale. Delle due categorie, preferisco francamente la seconda, perché nella prima sembra esserci un elemento genetico che confonde l’analisi dei diritti e perché sembra dare per scontata una gerarchia tra i diritti, che invece io vedo più complessa, nel senso che mi sembra, per esempio, che alcuni diritti economici siano indispensabili per dare senso ad alcuni diritti civili e politici. Laddove, quindi, si fa la classificazione generazionale, come l’ho chiamata io, si ha l’impressione che la gerarchia sia implicita non solo nella storia dei diritti, ma anche nella pratica, cosa che per me è più controversa. La seconda classificazione, allora, che è per così dire più orizzontale, mi sembra più plausibile. Al tempo stesso, con la mia perversa fantasia matriciale, incrocerei questa classificazione con altre distinzioni fondamentali che in dottrina sono normalmente fatte. Da un lato della matrice, porrei quindi una classificazione orizzontale di diritti in civili, politici, economico-sociali, culturali e bioetici, e dall’altro una classificazione verticale che li distingua in assoluti e relativi o, per lo meno, in più assoluti, sempre che l’espressione abbia un senso, e meno assoluti e in individuali e collettivi. Per esempio, i diritti culturali tipicamente sono i diritti di gruppo e non degli individui, anche se c’è una teoria molto interessante che dice che i diritti di gruppo hanno senso in quanto consentono il perfezionarsi di speranze e opzioni individuali, e che quindi anche i diritti collettivi sono in ultima analisi, diritti individuali. Ancora, i diritti possono essere distinti, come è noto, in negativi e diritti positivi, laddove i primi tutelano da, mentre i secondi promuovono verso. Anche qui la distinzione è importante, ma a mio avviso non assoluta, ed è tra l’altro una distinzione tipicamente bobbiana che si può rivedere alla luce dell’importanza fondante dei diritti positivi per quelli negativi. Ancora una volta, dunque, non ha senso proteggere gli individui che non hanno la possibilità di sopravvivere in un ambiente esterno troppo complesso e invivibile.

Uno dei problemi principali che queste categorie, più o meno interessanti che ho proposto, pongono, in una visione strettamente giuridica, è quello della loro implementazione. La tesi di una visione giuridica restrittiva, e a mio avviso miope, è, infatti, quella secondo la quale i diritti per così dire ci sono già e il problema è di farli valere sul serio. Senza sottovalutare il fatto che farli valere è decisivo, direi invece che il problema è più astratto, nel senso che di questi diritti non è facile, in realtà, stabilire le priorità reciproche il significato globale e locale dei diritti stessi e la stessa vaghezza con cui sono enunciati di solito pone molti problemi. Tutte queste classificazioni di diritti e tutte queste Dichiarazioni di diritti, infatti, stabiliscono sì principi fondamentali per la nostra convivenza, ma al tempo stesso li stabiliscono in maniera così generale ed astratta da rendere problematica l’implementazione stessa dei diritti. E questi non sono problemi di diretta applicazione; insomma, il problema non consiste soltanto nel fatto che gli Stati sono gelosi della loro sovranità e non vogliono applicare i diritti, perché è anche difficile sapere quali diritti sono da applicare, come, dove e perché. Il fatto stesso che ci siano dei diritti che ci sembrano più importanti di altri fa sì che è complicato parlare di diritti già esistenti da applicare. Bisogna, allora, stabilire quali diritti sono veramente esistenti e perché.

Questi diritti spesso sono richiamati da importanti Dichiarazioni, più o meno universali che esse siano, a cominciare da quella americana del 1776, quella francese del 1789 e soprattutto quella del 1948 delle Nazioni Unite, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Da questo punto di vista, a mio avviso, bisogna chiarire un aspetto: non è vero che prima esiste un popolo e poi una Costituzione, non è vero che prima esiste un accordo di nazioni sui diritti e poi bisogna fare la Dichiarazione. Quando gli Stati Uniti diventarono, appunto, parzialmente uniti, erano solo Stati singoli. Nessuno degli Stati del primo trattato americano era in realtà convinto di vivere nella stessa nazione, perché erano tutti nella mentalità del trattato e non della Costituzione, ma il fatto stesso che si facesse una Costituzione li convinse di stare nella stessa nazione. Il valore, quindi, di queste Dichiarazioni universali è anche prescrittivo e non solo dichiarativo, cioè esse non esemplificano soltanto una lista fondamentale di principi su cui noi possiamo essere d’accordo, ma hanno anche la funzione di cambiare la mentalità delle persone e di fargli capire che quei principi devono valere per loro stesse. Le Costituzioni, allora, e ho in mente in questo caso la Costituzione europea, di cui si parla tanto in questi giorni, non solo registrano un’unione che c’è già, nel qual caso effettivamente la Costituzione europea sarebbe prematura, ma in qualche modo formano un popolo, lo costituiscono. Un popolo non è solo un’entità etnica, è soprattutto un’unità costituzionale e il fatto che ci sia una Costituzione, per lo meno in parte contribuisce a creare un popolo.

Tutto ciò fa sì, secondo me, che queste Dichiarazioni siano estremamente significative. Le Dichiarazioni più o meno universali dei diritti dell’uomo sono spesso integrate da covenants, da patti. Questi patti sono diversi e svariati, sono divisi per contenuto e per regioni geografiche. C’è il Patto dei paesi africani, il Patto dei paesi islamici, ma c’è anche il Patto che riguarda i diritti sociali e quello che riguarda i diritti politici. Sono quindi suddivisi per aree di contenuto, sia per aree geografiche, geopolitici e contenutistici. Si può immaginare un Patto che riguardi le religioni ed un Patto che riguardi i nuovi diritti e la bioetica. La proliferazione eccessiva di Dichiarazioni e trattati sicuramente è un pericolo, lo diceva prima il prof. Conso. Il misto di vaghezza dei principi generali e di proliferazioni di Dichiarazioni e Patti effettivamente genera insicurezza e sconcerto, e dà il senso che le violazioni aumentino anziché diminuire. D’altra parte anche questi covenants non sono inutili né dal punto di vista intellettuale né dal punto di vista giuridico. Partendo dal punto di vista giuridico la funzione principe a mio avviso di questi patti è quella di integrare una Costituzione di principi universali nelle singole legislazioni. In realtà, i vari popoli devono far entrare quel diritto comune che c’è nelle Dichiarazioni dei diritti umani nella loro legislazione; i Patti servono a far questo, in buona sostanza. Al tempo stesso, le Dichiarazioni servono a dire quali di questi diritti devono entrare. Quindi, la duplicità dialettica, si sarebbe detto una volta, di Patti e Dichiarazioni, non esprime una sola posizione eccessiva, ma rappresenta una sorta di necessità che mette insieme, diciamo così, locale e globale.

Da questo punto di vista e dal punto di vista della discussione che ormai molti fanno della possibilità di rivedere dopo più di cinquant’anni la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite del 1948, è da sottolineare che c’è sì un pericolo di moltiplicare le Dichiarazioni e, quindi, di inflazionarne la semantica - come a dire si parla sempre di queste cose, ma poi non si fa mai niente - ma al tempo stesso c’è una forte necessità di farlo, a mio avviso per lo meno su due fronti, uno geopolitico o almeno geografico e culturale, e l’altro di contenuto. C’è tutta una nuova sfera di diritti che non sono previsti, diritti che riguardano ad esempio la genetica, la computeristica o la robotica. Questi diritti non sono previsti nelle Dichiarazioni tradizionali; quindi, inserirli adesso, sarebbe a mio avviso estremamente significativo per far capire la rilevanza di quegli aspetti dal punto di vista sociale e morale collettivo.

Da un altro punto di vista è chiaro che la supposta universalità di questi diritti è in discussione. Sono diritti universali, ma sono diritti anche eurocentrici, sono diritti storicamente anche europei e occidentali. Bisogna porsi, quindi, necessariamente il problema della dislocazione dei diritti nel mondo. Da questo punto di vista sono molto d’accordo con la tesi esposta prima, non so quanto buddista, ma favorevole a quello che io penso, nel senso che davvero non si può pretendere che i diritti calino dall’alto di un modello: vendere, esportare la democrazia con la forza è veramente stupido, perché se la democrazia non nasce da dentro non ha senso. Tra l’altro, c’è una vecchia storia, che tutti i teorici della scelta collettiva ricordano: in materia d’identità non si può votare. Le identità sono precostituite e, quindi, i diritti devono venire necessariamente dall’interno. Imporre i sistemi e le procedure democratiche a popolazioni che hanno questioni identitarie è stupido. Vi faccio un esempio: se in Iraq si prendesse sul serio l’idea che si deve votare su tutto, assisteremmo ad una dittatura sciita, semplicemente perché gli sciiti sono di più e le altre popolazioni non sarebbero rispettate. Questo non ha particolare senso. Bisogna capire, quindi, che le varie tradizioni sanno, per così dire, dall’interno tutto questo e ne fanno uso. Noi, allora, dobbiamo stare bene attenti a non pensare che un modello di liberal-democrazia, per quanto non in modo assoluto, di successo in un angolo del mondo, non è detto che debba esserlo dappertutto e soprattutto non allo stesso modo. Insisto dunque sull’aspetto ermeneutico, interpretativo delle liste dei diritti umani. Non pensiamo che esistano prodotti preconfezionati. Il problema non è solo quello dell’applicabilità, ma dell’universalismo delle differenze, della capacità di mantenere un modello minimale che possa essere, sì, concettualmente d’interesse per tutti, ma di vederlo nelle varie religioni, nelle varie tradizioni, nelle varie culture. Esiste per esempio, a mio avviso, un Islam liberale e non è detto che vada trascurato. Se leggete i grandi pensatori islamici vi accorgerete che molti di questi ritengono che l’Islam sia, innanzitutto e soprattutto, una religione del dialogo e della fede. Non sarà solo questo, ma è anche questo; è anche chiaro che noi dobbiamo forzare nelle varie tradizioni quel tipo di spiritualità, di cultura e di storia che favorisca queste interpretazioni.

Penso soprattutto a due tipi di principi, oltre a quelli di protezione dell’identità culturale nel tempo, principi che riguardano innanzitutto la libertà e in secondo luogo il benessere economico delle popolazioni. Questi principi, insieme con quelli del rispetto e dell’identità culturale, costituiscono una triade di fondo che dobbiamo sempre tenere presente nella discussione sui diritti umani. Da questo punto di vista l’esempio dell’intervento armato che è stato fatto prima, per quanto discutibile sia qualsiasi intervento armato, è interessante, perché il cosiddetto intervento umanitario, cioè l’intervento armato in un altro paese per ragioni di violazione di diritti umani, rappresenta quello che gli inglesi chiamano "test case", un caso da studiare di grande interesse, perché si vedono i problemi intrinseci ai diritti umani, proprio quando si comincia a pensare ad un intervento in risposta ad una violazione. Esiste, tanto per fare un esempio, un diritto umano alle ferie pagate, ma è difficile pensare ad un diritto d’intervento armato in un altro paese, perché non è stato rispettato il diritto alle ferie pagate. Quando ci mettiamo di fronte alla crudezza dell’intervento armato, allora, qualcosa si capisce, ed è chiaro che da questo punto di vista i diritti di libertà hanno un’indubbia priorità. Certamente non è lecito affamare un popolo, ma certamente quanto più la privazione della libertà è essenziale, è in gioco, tanto più un intervento armato ha senso. Che la guerra resti un tabù, che la pace sia nei cuori è dato per scontato; se, però, si deve intervenire per ragioni di violazione di diritti umani, se qualcuno lo fa, è chiaramente più facile pensare che lo faccia su diritti di libertà, più difficile su diritti economici e assolutamente impossibile su ragioni identitarie, perché su queste non ha alcun senso intervenire, probabilmente.

Se questo è vero, come si potrebbe tutto questo riferire all’Europa? A mio avviso bisogna considerare almeno due punti: il primo è che per quanto riguarda la Costituzione europea abbiamo assistito, negli ultimi mesi, a un vero e proprio ping pong discorsivo e argomentativo fra fautori della Costituzione e fautori del Trattato. Io penso che non ci siano questioni di alternative e come ho cercato di dire poco fa, prima si faccia la Costituzione e poi si facciano i Trattati; e i Trattati integrino negli Stati quello che la Costituzione afferma valere per tutti. Non è vero che le Costituzioni registrano un’unione già fatta, lo ripeto, ma è vero che le Costituzioni spesso contribuiscono a creare un’unione che non c’è ancora. Perché non agire così nel caso dell’Europa?

Infine, credo che un altro problema importante sia quello di localizzare l’universale. C’è una famosa dialettica dei limiti della globalizzazione e del rapporto necessario tra globale e locale. Qualcuno ha anche inventato la parola, non particolarmente felice, di "glocale", per indicare il senso di questa dialettica. Ad ogni modo, cosa s’intende effettivamente con "glocale", dal punto di vista del rapporto fra diritti umani fondamentali e universali e diverse storie di territori con tradizioni alternative? A mio avviso, come dicevo prima, non si possono imporre gli stessi moduli dappertutto, piuttosto, dovunque si vada, bisogna cercare all’interno delle tradizioni locali il senso di diritti fondamentali. In fondo, ogni tradizione ci parlerà della vita, della libertà e del diritto di esistere con gli altri in relativa pace. E’ difficile che non ci sia, nelle varie tradizioni culturali, qualcosa del genere. Qual è, allora, il complemento istituzionale di quest’idea molto generale? Assumendo che ci sia un’idea filosofica per cui non esiste un cammino predefinito per i diritti umani, ma una pluralità di sentieri che portano tutti, più o meno, in direzione dei diritti umani, come si realizza istituzionalmente un’idea tanto astratta? La mia opinione è che una parziale istituzionalizzazione può essere trovata nella regionalizzazione delle strutture che si occupano di diritti umani: sostanzialmente, grandi agenzie regionali, laddove le regioni sono regioni del mondo e non le regioni italiane, ognuna con una sfera di competenza che, più o meno, attiene all’area di cui ci si occupa. L’Unione europea, per esempio, sarebbe uno di questi luoghi, sicuramente avvantaggiato per tradizione interna e per la storia che ha avuto; un’altra area potrebbe essere sul continente americano, in Asia, in Africa e in altri luoghi del mondo da vedere nei singoli casi. Secondo me, l’Europa può servire come uno straordinario laboratorio e modello di localizzazione regionale sui diritti umani, in modo che anche altrove avvenga lo stesso. Con questo concludo il mio intervento e mi scuso se sono stato lungo. Sono convinto che siamo di fronte ad un cammino impervio e difficile, ma anche necessario e fruttuoso. Grazie.




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