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La fine del dolore insopportabile


di Paolo Cendon - Università degli studi di Trieste

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1. Sospensione dei trattamenti medici di fine vita: occorre pensare soprattutto al morente il quale lamenti dolori lancinanti e invincibili. Alcune tracce in proposito sono ben chiare.
Sul terreno delle fonti normative, per cominciare. Si sa quanto numerosi figurino, nel nostro ordinamento, i riconoscimenti testuali del “diritto a non soffrire”. Nessun dubbio allora circa la necessità che l’infermo, di fronte agli oltraggi di una malattia inguaribile, approdata alla fase conclusiva, non venga abbandonato al proprio destino.
Sul terreno applicativo, poi. E’ noto come il “no al dolore” sia ben presente alla medicina palliativa dei nostri giorni - e come alcuni preconcetti d’ordine culturale/burocratico sulla morte stiano, pur con lentezza, attenuandosi anche in Italia.
Talvolta l’unica strada per far cessare le pene finali della vita, o per riuscire a patire di meno, può essere in effetti - piaccia o non piaccia - quella di rassegnarsi alle prospettive di un’esistenza, di tanto o di poco, abbreviata. Riflesso prevedibile, seppur non cercato appositamente, dei pesanti trattamenti farmacologici verso i quali ci si orienta.

2. In questa sede si tratta però di considerare un’ipotesi diversa, per tanti versi più estrema e senza uscita: quella di patimenti - non già blandi, o quasi sopportabili, con l’aiuto di qualche analgesico - bensì tali per se stessi: (i) da oltrepassare, nel loro insieme, ogni capacità di resistenza umana, comunque i limiti di tollerabilità per “quel” certo paziente; (ii) da non poter essere attenuati in modo decente attraverso il ricorso ai farmaci attualmente sul mercato, quantomeno nel caso specifico.
Suicidio a parte, quando pure attuabile, è palese come al malato terminale non rimarrà altra scappatoia, qui, se non quelle dell’istanza - rivolta all’esterno - di un sollecito accorciamento della vita: momento non già temuto/scontato quale risvolto di future soggezioni agli stupefacenti, bensì perseguito e desiderato per se stesso, senza dilazioni, come sola alternativa realistica al dolore.
Più d’una, allora, le ipotesi in cui la combinazione in esame sarà ravvisabile:
a) quella della comprovata inefficacia - rispetto a tipologie di sofferenze stabilizzate o crescenti - di interventi palliativi di qualsiasi sorta, fra quelli offerti oggigiorno dalla scienza;
b) quella dell’indisponibilità di fatto, in Italia, di prodotti antidolorifici pur validi o appropriati sulla carta – e ciò a seguito di qualche scoglio o di ritardi nazionali di natura procedurale, legislativa, economica;
c) quella dell’inutilizzabilità in concreto dei medicinali farmacologicamente appropriati, e ciò per effetto di refrattarietà o di controindicazioni di carattere personale, relative a “quel” certo paziente (sul terreno immunologico, allergologico, idiosincratico, etc.);
d) quella del rifiuto del malato, nei confronti di qualche trattamento di sostegno (poniamo, la ventilazione), laddove il solo modo per smettere di soffrire sia la sottoposizione ad un farmaco, mettiamo a base di morfina, utile bensì contingentemente rispetto al dolore, e tale però da avviare chi decida di assumerlo, stanti le modalità di impiego necessarie nel contesto, verso uno stato di incoscienza senza ritorno.

3. E’ palese quale sia il filo conduttore, nelle quattro situazioni. Si tratta comunque di frangenti in cui il peso degli argomenti “pro-sospensione” (dolori insopportabili, fitte invincibili salvo un’auto-distruzione di tipo psichico) oltrepassa largamente quello dei motivi “pro-accanimento” (fede religiosa, sacralità della vita, incancellabilità delle conseguenze in caso di decisione sbagliata).
Tale anzi il divario fra i due piatti della bilancia da tacitare ogni remora circa la stessa ammissibilità di un ricorso, eventuale, all’eutanasia “attiva” . Ogni ostinazione terapeutica appare qui, in radice, fuori gioco.

4. Alcuni punti da chiarire allora.
Il dolore anzitutto - quello in nessun modo riducibile o espugnabile. Siamo di fronte, inutile negarlo, ad uno spettro non ancora fugato dallo scenario delle fasi terminali. Non completamente almeno: al di là dei progressi della medicina palliativa, si calcola permanga oggigiorno un 10% di patologie nelle quali la scienza non riesce, in concreto, a fornire risposte adeguate.
È pur vero che in casi simili sarebbe sempre possibile, quale ultima spiaggia, l’approdo alla cosiddetta terminal sedation. Si allude, con ciò, all’induzione volontaria di uno stato di incoscienza stabile e controllato, stato da cui il malato potrebbe non più riemergere qualora la priorità restasse, nel corso del tempo, quella della lotta contro il dolore. Come risultato avremmo una situazione di perenne inconsapevolezza della sofferenza: con il paziente avviato a trascorrere i suoi ultimi giorni entro una dimensione reificata, nel buio di un coma ininterrotto.
Che dire al riguardo? Dolori e patimenti fisici oltre ogni limite, al prezzo di una preservazione della lucidità mentale - oppure alienazione totale e cronicizzata, in cambio del non sentire più fitte e tormenti. Questo il solo bivio immaginabile, in Italia, nel diritto privato del terzo millennio?
Verosimilmente no. Esiste una terza soluzione che può, a ragion veduta, essere affacciata, un esito antropologicamente meno incongruo, più attento all’universo di chi soffre.

5. Vale a dire. Se si concorda che la parola “vita” significa, nella sua essenza, pienezza e consapevolezza di sé - cioè l’opposto di una condizione espropriata o vegetale; e se si conviene, d’altro canto, che il miglior giudice dei propri bisogni rimane nella generalità dei casi il malato terminale; orbene, andrà sottolineata la piena legittimità di un no all’imposizione di quei trattamenti che apparissero a tal punto disgregatori, del corpo e/o della mente, da privare l’infermo di un autentico dialogo col proprio io, di ogni possibilità di scambio col mondo.
Più precisamente:
(a) a fronte di dolori intollerabili, nonché della constatata insufficienza di qualsiasi
misura palliativa, tanto maggiore sarà il grado di inderogabilità della regola che tende a privilegiare, dinanzi alla morte imminente, la volontà dell’assistito;
(b) stesso discorso sull’altro terreno (il secondo dei “vicoli ciechi”): rispetto cioè alla
prospettiva di una massiccia erogazione di oppiacei, comunque di misure chimiche o tecnologiche super-invasive - rimedi utili per contenere nel breve quelle sofferenze, ma tali da comportare nel medio una distruzione radicale della coscienza;
(c) operativamente allora: in tutte le ipotesi di cui sopra, al fine di un’abbreviazione della vita, il paziente sarà ammesso a rifiutare la (proposta di) soggezione a misure di sostegno vitale, o potrà richiedere che i trattamenti in atto vengano sospesi;
(d) al cospetto di sofferenze irriducibili, e sempre beninteso sulla base di una specifica domanda dell’interessato, verrà a schiudersi ulteriormente la chance di un ricorso all’eutanasia vera e propria: intesa come intervento di tipo “attivo”, realizzato consapevolmente dai sanitari, al fine di determinare la morte.



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