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Diritto alla vita, diritto alla morte


di Paolo Cendon - Università degli studi di Trieste

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1.Il tema della morte anticipata – quale che sia il versante preso in esame (sospensione dei trattamenti piuttosto che eutanasia) - appare destinato a mettere in gioco una serie di referenti “forti” del sistema
Si tratta di principi, a prima vista, incompatibili fra di loro, e tali che il riguardo prestato all’uno sembra implicare il sacrificio, più o meno profondo, dell’altro.
La mappa dei valori in campo appare ben precisa. Da una parte il vessillo della difesa della vita - prospettata come bene assoluto, valore da presidiare a qualsiasi costo. Dall’altra il motivo della salvaguardia della dignità umana, inteso come diritto all’autodeterminazione dell’individuo - perciò come limite alla legittimità di trattamenti sanitari (ossia quale rifiuto di ogni forma di ostinazione terapeutica).
Di qua, insomma, la vita per se stessa, sempre e comunque inviolabile; di là la qualità effettiva dell’esistere, misurata e valutata giorno per giorno.

2. Sono posizioni e divergenze abbastanza ripetute e ormai ben note, anche presso il grande pubblico.
I sostenitori della sacralità della vita, e quindi della sua inviolabilità, ritengono - la Chiesa cattolica per cominciare - che la vita umana sia un dono di Dio; il primo e più importante di tutti, anzi. Non v’è autorità terrena che possa avocare a sé il potere di sopprimere, consapevolmente e volontariamente, una creatura umana innocente; in nessun caso, per nessuna ragione al mondo, neppure quando sia il titolare a farne richiesta.
Si ribatte sull’altro fronte. Conclusioni siffatte potranno valere, al massimo, per chi condivida quelle premesse ideali; non per tutti quanti i cittadini. Un ente quale lo Stato, laico per definizione, non può farsi paladino oggigiorno di convinzioni che siano proprie (come in questo caso) di una parte della popolazione soltanto, pretendendo di imporne l’osservanza a chiunque, compresi coloro che la pensano diversamente.
Né il punto è solo quello della libertà. Non meno importanti sono i riscontri per la qualità della vita. Duplice anzi, in quest’ottica, il piano delle voci che rilevano: (a) misura dei rapporti che il paziente manterrà con se medesimo - la padronanza del corpo e della mente, rispetto alla sequenza dei bisogni quotidiani; (b) attenzione per il piano delle relazionalità intessute col mondo esterno.

3. Replica sul fianco opposto. Negli appelli al dogma dell’inviolabilità della vita va ravvisato, a prescindere da ogni postulato religioso o metafisico, il canone per qualsiasi opzione di natura sanitaria; comprese quelle relative al trattamento di chi sta per morire. Soprattutto queste ultime, anzi: non v’è al mondo persona adulta che possa dirsi indifesa come un malato terminale, nessun altro che appaia così esposto al pericolo di errori e di abusi.
Di qui (ecco la conclusione) la necessità di scorgere nel richiamo in esame una garanzia a tutto campo - una sorta di baluardo. Più ancora: il solo argine possibile dinanzi allo spettro di una deriva progressiva, che potrebbe, alla lunga, legittimare l’indiscriminata soppressione di individui malati e improduttivi. E’ l’argomento del cosiddetto “pendio scivoloso”.
Non manca però ancora una volta la risposta. Tutto sta in casi simili a vedere (per la collettività, per il singolo infermo) dove stia il male minore. Il bene assoluto non è di questa terra: una norma la quale riconoscesse il diritto ad accorciare la propria vita, e in cui fossero ben scolpiti i limiti di una tale prerogativa, si esporrebbe al rischio di arbitrî assai minori che non quelli insiti in una pratica (l’accelerazione della morte) qualificata magari illecita a parole, ma in realtà praticata nell'ombra - pressoché ovunque e senza controlli, semi-tollerata anche da chi verbalmente la contrasta.
Aleggiante su tutto ciò un Leitmotiv trasversale - caro soprattutto ai seguaci del partito “pro-sospensione”, ma in qualche modo accettato da chiunque. Il rifiuto, fermo, a tutto tondo, verso ogni forma di accanimento terapeutico.

4. Districarsi entro un mosaico tanto vasto di argomenti non è semplice: ognuna fra le opinioni di cui sopra può accampare elementi di verità. Che la vita sia un valore fondamentale è fuori discussione. Anche la frequenza di certi scempi, del corpo e della mente, anche talune sofferenze (indomabili) di chi sta spegnendosi nel suo letto, costituiscono però dati di assoluto rilievo per lo studioso.
Nella ricerca di una via d’uscita, l’approccio che più sembra raccomandarsi è allora, in prima approssimazione, quello favorevole a una moltiplicazione - sulla carta - delle vie d’uscita praticabili: differenziandole in funzione dell’area del disagio psicofisico che venga, effettivamente, in rilievo.
Non è questione di culto ad ogni costo per l’equidistanza. Vi è in realtà un difetto di impostazione, facilmente ravvisabile a chi scorra con attenzione le fila del recente dibattito, alla base di ciascuno fra i punti di vista ufficiali. E il vizio, detto in breve, è quello di voler affrontare tematiche come quelle della fine anticipata secondo un taglio prettamente dilemmatico, di rigido manicheismo. Quasi fosse possibile, su crinali tanto delicati, procedere ogni volta attraverso una serie di aut-aut - calati dall’alto astrattamente, e prospettati all’”avversario” in chiave ultimativa.

5. In verità, il problema, ai fini di un restatement sul dolore, non si pone davvero nei termini di una scelta perentoria, che andrebbe oggi compiuta definitivamente. E la distinzione più congrua, in linea di principio, sembra essere allora quella fra tre ambiti possibili:
(a) area del morente che soffra atroci dolori fisici, non fronteggiabili né attenuabili in alcun modo - comunque non quanto occorrerebbe, o non abbastanza risolutamente e stabilmente; in ogni caso, non nel rispetto di un minimum di decenza esistenziale, antropologica;
(b) area del morente le cui propensioni autolesive appaiano mosse da fattori eminentemente mistico/ideologici; la persona in difficoltà non prova – questa volta - dolori somatici degni di nota, non soffre in tutti i casi oltre misura; per ragioni più o meno “elette” (di tipo filosofico, religioso, politico, etico, culturale, etc.) desidera però venga ugualmente posta fine alla sua vita;
[c] area del morente il quale, pur non accusando seri dolori al corpo, versi tuttavia in condizioni di grave degrado fisio-psichico: deformazioni, sudditanze crescenti, piccole e grandi vergogne, disfacimenti in vita, umiliazioni senza sosta: la giornata come un calvario incessante, sempre meno dignitoso e sopportabile.
Ecco allora le direttrici da seguire. Non già la ricerca di un pacchetto disciplinare a senso unico, fisso e immutabile per qualsiasi cliente. Diverse fra loro - secondo che a presentarsi sia l’uno oppure l’altro, dei crinali indicati - dovranno essere le ipotesi statutarie cui far capo, riguardo ai singoli infermi, di fronte a una domanda di morte anticipata.



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