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Luci e ombre del decreto legislativo n. 216/2003


di Francesco Bilotta - Università di Udine

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Il d. lgs. n. 216/2003 ha recepito la direttiva 2000/78/CE stabilendo il divieto di discriminare al momento dell’assunzione e durante la vigenza del contratto di lavoro (sia nel settore pubblico sia in quello privato) in base: alla religione professata, alle convinzioni personali, alla presenza di un handicap, all’età, all’orientamento sessuale.
La nozione di discriminazione adottata dal legislatore è piuttosto ampia. Si fa riferimento tanto alla discriminazione diretta:
«quando (...) una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga»
(d. lgs. 216/2003 art. 2, 1° co., lett. a),
tanto alla discriminazione indiretta:
«quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone (…) in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone»
(d. lgs. 216/2003 art. 2, 1° co., lett. b).

Sono, altresì, considerate come discriminazioni le

«molestie ovvero quei comportamenti indesiderati (…) aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di un persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo»
(d. lgs. 216/2003 art. 2, 3° co.).

L’art. 4, 1° co., innova l’art. 15, u. co., dello Statuto dei lavoratori, che già per l’innanzi sanciva la nullità di ogni atto o patto diretto a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua, di sesso. Ora a tali ipotesi si è aggiunta la discriminazione basata sul fatto di essere portatore di handicap, sull’ età, sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali.
Lo stesso articolo disegna la tutela giurisdizionale contro atti discriminatori. Il lavoratore discriminato può avvalersi delle procedure semplificate e rapide previste dai commi da 1 a 6 dell’art. 44 t. u. sull’immigrazione; e, se lo desidera, può delegare l’azione contro il datore di lavoro ad una rappresentanza locale di un sindacato dei lavoratori (es. la CGIL).
Si segnala in particolare il regime probatorio previsto per tale azione:

«Il ricorrente al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno, può dedurre in giudizio, anche sulla base di dati statistici, elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti, che il giudice valuta ai sensi dell'articolo 2729, primo comma, del codice civile»
(d. lgs. 216/2003 art. 4, 4° co.).

Nel caso venga accertata la sussistenza di una discriminazione, il datore di lavoro sarà condannato al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale (nozione in cui è compreso il danno morale soggettivo, il danno esistenziale e il danno biologico nel caso in cui a causa del trattamento subito il lavoratore subisca alterazioni della sua integrità fisica e psichica medicalmente accertabili). Il giudice ha, altresì, il potere di ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell'atto discriminatorio, ove ancora sussistente, nonché la rimozione degli effetti, oltre alla pubblicazione delle sentenza a spese del convenuto, per una sola volta su un quotidiano di tiratura nazionale (d. lgs. 216/2003 art. 4, 5° e 7° co.).

Per la prima volta in Italia, una legge sancisce in modo esplicito il divieto di discriminare le persone in base al loro orientamento sessuale. Ciò è significativo nonostante il fatto che l’ambito di applicazione della normativa sia limitato al contesto lavorativo.
Vi è però da segnalare l’art. 3, 3° co., che introduce un’eccezione al divieto di discriminare che non trova alcun riscontro nel testo della direttiva 2000/78/CE. Il testo della norma recita:

«Nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, nell'ambito del rapporto di lavoro o dell'esercizio dell'attività di impresa, non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell'articolo 2 quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione, alle convinzioni personali, all'handicap, all'età o all'orientamento sessuale di una persona, qualora, per la natura dell'attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell'attività medesima. Parimenti, non costituisce atto di discriminazione la valutazione delle caratteristiche suddette ove esse assumano rilevanza ai fini dell'idoneità allo svolgimento delle funzioni che le forze armate e i servizi di polizia, penitenziari o di soccorso possono essere chiamati ad esercitare»
(d. lgs. 216/2003 art. 3, 3° co.).

La formulazione della norma sembra ben distante dal corrispondente testo dell’art. 4, 1° co., della direttiva 78/2000/CE

«Fatto salvo l'articolo 2, paragrafi 1 e 2, gli Stati membri possono stabilire che una differenza di trattamento basata su una caratteristica correlata a uno qualunque dei motivi di cui all'articolo 1 non costituisca discriminazione laddove, per la natura di un'attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell'attività lavorativa, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato»
(dir. 78/2000/CE art. 4, 1° co.).

Le perplessità circa la correttezza dell’intervento normativo di recepimento della direttiva europea poi cresce se si analizza il 23° considerando della stessa

«In casi strettamente limitati una disparità di trattamento può essere giustificata quando una caratteristica collegata alla religione o alle convinzioni personali, a un handicap, all'età o alle tendenze sessuale costituisce un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell'attività lavorativa, a condizione che la finalità sia legittima e il requisito sia proporzionato. Tali casi devono essere indicati nelle informazioni trasmesse dagli Stati membri alla Commissione»
(dir. 78/2000/CE 23° considerando).

Dalle due norme europee richiamate si trae, da un lato l’esistenza di un principio di tipicità, per cui è il legislatore e non il datore di lavoro (come sembra suggerire l’interpretazione dell’art. 3, 3° co. d. lgs. 216/2003) a dover indicare in quali casi si possa far eccezione al principio di non discriminazione; dall’altro una connotazione della fattispecie fortemente oggettiva, che non lascia alcun margine di discrezionalità al datore di lavoro, circa l’idoneità del lavoratore ad essere assunto o a continuare a svolgere le mansioni affidategli.
Altro aspetto che desta qualche perplessità è la reformatio in peius dell’art. 15 dello Statuto dei lavoratori. Infatti, se per un verso la norma risulta più ampia grazie all’allargamento delle fattispecie in cui può determinarsi una discriminazione; dall’altro, se l’art. 3, 3° co, d. lgs. 216/2003 si estende a tale norma, che non contemplava nessuna eccezione al principio di non discriminazione, ciò vuol dire che la tutela del lavoratore precedente all’introduzione del d. lgs. 216/2003 era più ampia. Conseguentemente risulta violato l’art. 8 della direttiva che prevede

«L’attuazione della presente direttiva non può in alcun caso costituire motivo di riduzione del livello di protezione contro la discriminazione già predisposto dagli Stati membri nei settori di applicazione della presente direttiva»
(dir. 78/2000/CE art. 8, 2° co.).

Inoltre, da un punto di vista sistematico il testo del decreto di recepimento rischia di bloccare, anziché favorire, l’evoluzione della dottrina e della giurisprudenza nel senso di un divieto generalizzato e tassativo di discriminare. E ciò in palese contrasto non solo con l’art. 3 Cost., ma altresì con il Trattato europeo e con la Carta di Nizza.
Si segnala, ancora, che la legittimazione ad agire estesa alle associazioni, che abbiano interesse alla protezione contro certe forme di discriminazione, prevista in via generale dall’art. 9, 2° co., dir. 78/2000/CE, è stata tradotta in termini ambigui dall’art. 5 nel decreto in commento. A tale conclusione si giunge facilmente comparando il testo delle due norme. La norma europea prevede che

«Gli Stati membri riconoscono alle associazioni, organizzazioni e altre persone giuridiche che, conformemente ai criteri stabiliti dalle rispettive legislazioni nazionali, abbiano un interesse legittimo a garantire che le disposizioni della presente direttiva siano rispettate, il diritto di avviare, in via giurisdizionale o amministrativa, per conto o a sostegno della persona che si ritiene lesa e con il suo consenso, una procedura finalizzata all'esecuzione degli obblighi derivanti dalla presente direttiva»
(dir. 78/2000/CE art. 9, 2° co.),

mentre il decreto legislativo all’articolo 5, 1° co., fa riferimento alle rappresentanze locali delle organizzazioni maggiormente rappresentative a livello nazionale, che letto assieme a quanto previsto dall’ultima parte dell’art. 4, 3° co., dello stesso decreto, induce restringere alle sole organizzazioni sindacali la legittimazione ad agire in nome, per conto e a sostegno del lavoratore discriminato, escludendo le associazioni e le altre persone giuridiche, che a diverso titolo si occupano della tutela delle persone discriminate. E’ evidente che tale interpretazione restrittiva sia in patente contrasto con la norma comunitaria e perciò non possa essere seguita.
L’art. 4, 3° co. prevede il tentativo obbligatorio di conciliazione ai sensi dell’art. 410 c.p.c. visto che il rito applicabile nel caso di specie sarà quello del lavoro. Tale rinvio appare un deterrente per il lavoratore discriminato. E’ notorio, infatti, che gli Uffici del Lavoro e della massima occupazione non riescono – specie nelle grandi città – ad espletare tempestivamente tale tentativo di conciliazione. Ciò comporterà che il lavoratore discriminato – ove non agisca in via cautelare d’urgenza – sarà costretto a rimanere al suo posto di lavoro nel periodo di attesa (60 giorni, trascorsi i quali il tentativo di conciliazione si considera come avvenuto, in base all’art. 410 bis c.p.c.) della convocazione da parte del ULMO, esponendosi verosimilmente ad ulteriori vessazioni.
L’art. 44 del t.u. sull’immigrazione non prevedeva tale procedura preliminare, perché l’azione civile era concepita al di fuori dell’ambito lavoristico. Da ciò deriva che quella celerità che il rito del lavoro avrebbe impresso all’azione civile contro la discriminazione, prevista dal t.u. sull’immigrazione (rispetto alla quale normalmente si applica il rito di cognizione ordinario) in tal modo scema completamente. A dimostrazione che il riferimento al tentativo di conciliazione non sia imprescindibile in materia di lavoro, si può ricordare il procedimento semplificato previsto dall’art. 28 Statuto lavoratori, a proposito della repressione antisindacale. Tale norma non impone alcuna conciliazione preventiva. E ciò per ragioni assolutamente simili a quelle di cui al decreto legislativo in commento, ossia per la particolare odiosità del comportamento del datore di lavoro, capace di ledere posizioni di libertà costituzionalmente garantite.
Infine, merita fare cenno alla questione della prova della discriminazione. L’inversione dell’onere della prova costituisce un elemento di fondamentale importanza nei processi di questo genere, proprio per le difficoltà che incontra il lavoratore a provare la discriminazione, specie tenendo conto: a) della probabile ritrosia dei colleghi a testimoniare contro il loro datore di lavoro; b) della inesistenza – il più delle volte – di prove documentali; c) della sprovvedutezza di tanti che non si preoccupano di documentare preventivamente quanto gli è capitato sul posto di lavoro.
A tal riguardo la direttiva all’articolo 10, 1° co., prevede espressamente che:

«Gli Stati membri prendono le misure necessarie, conformemente ai loro sistemi giudiziari nazionali, per assicurare che, allorché persone che si ritengono lese dalla mancata applicazione nei loro riguardi del principio della parità di trattamento espongono, dinanzi a un tribunale o a un'altra autorità competente, fatti dai quali si può presumere che vi sia stata una discriminazione diretta o indiretta, incomba alla parte convenuta provare che non vi è stata violazione del principio della parità di trattamento»
(dir. 78/2000/CE art. 10, 1° co.).

L’art. 4, 4° co., d. lgs. n. 216/2003 si limita a richiamare l’art. 2729 c.c., aggiungendo la possibilità di servirsi di dati statistici (previsione, ad esempio, sostanzialmente inutile per le discriminazioni contro gli omosessuali), senza prevedere alcuna inversione dell’onere della prova. Pertanto, spetterà sempre al lavoratore provare la fondatezza della propria domanda. L’allegazione dei fatti oggettivamente gravi, precisi e concordanti, potrà solo convincere il giudice della bontà delle argomentazioni addotte dal lavoratore, ma rimetterà alla sua piena discrezionalità la valutazione circa l’idoneità degli indizi a fondare una prova per presunzioni.




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